di Rock Reynolds
Me le ricordo bene quelle telecronache: partite del campionato di basket della vecchia Jugoslavia, quando quella nazionale spadroneggiava in Europa e iniziava a mettere una certa ansia agli americani, ancora convinti di poter vincere Olimpiadi e Campionati del Mondo con una squadra raffazzonata di universitari. I giochi di Barcellona, quando fece la sua comparsa il “Dream Team”, un brand come piace tanto agli americani, dovevano ancora venire.
Ebbene, quelle telecronache su uno degli unici due canali televisivi al di fuori della RAI, TV Koper-Capodistria (l’altra era la Televisione della Svizzera Italiana), le faceva un commentatore straordinario, decisamente fuori dagli schemi compassati della RAI ma al tempo stesso diversissimo da quello che sarebbe stato lo stile delle trasmissioni sportive di Mediaset, prima, e Sky, poi. Si chiamava, anzi si chiama Sergio Tavčar.
Italiano della minoranza linguistica slovena, Tavčar ha sempre sfoggiato quella simpatia naturale, favorita dalla forte inflessione friulana di confine, che non ha bisogno – almeno quella era la sensazione dall’esterno – di voli pindarici, sparate ego-riferite e sproloqui narcisistici per catturare l’attenzione dello spettatore. Tavčar, grande conoscitore della pallacanestro e pure di altri sport, a partire dal nuoto, ha sempre fondato le sue fortune su competenza e umanità.
Un pioniere della televisione di concorrenza alla RAI, fu catapultato nell’etere italiano senza quasi rendersi conto della rivoluzione che stava per compiersi: «in Italia la gente cominciò a seguire le partite in un numero che mai e poi mai avremmo potuto immaginare».
Quello che Sergio Tavčar non avrebbe potuto prevedere, in realtà, era la presa delle sue telecronache sul pubblico, la sua capacità di tenere ancorati gli appassionati a partite talvolta non di cartello di un campionato lontano che, non fosse stato per certe sue intemerate, difficilmente avrebbero mantenuto un alto indice di ascolto. Chiunque lo abbia seguito al tempo ricorderà la sua totale assenza di filtri, un pane al pane e vino al vino che oggi nessuno si sognerebbe di utilizzare, se non a mo’ di posa. Di pose in Sergio Tavčar non ce n’erano: le sue parole sembravano uscire dalla pancia, ma non prima di un significativo transito da cervello e cuore. Gli capitava spesso di dire che questo giocatore aveva la “mano quadra” o quell’altro “dormiva profondamente”.
Talvolta, le sue critiche erano tutto sommato immeritate, come quando ci andava giù pesante con giocatori poi dimostratisi ottimi, come il nazionale Zoran Čutura, che in seguito, va detto, iniziò a difendere a spada tratta. Chissà se ha mai stizzito qualcuno con commenti simili? «Parlavo in italiano di giocatori jugoslavi. Non mi capivano! L’ho sempre passata liscia, per fortuna» ci ha detto, con la consueta verve.
È da poco uscito un bel libro di memorie attraverso cui Sergio Tavčar ricostruisce la meravigliosa esperienza di TV Koper-Capodistria di cui ha finito per essere la voce più conosciuta. I pionieri (Bottega Errante Edizioni, pagg 191, euro 18) diverte, intriga e commuove al tempo stesso e può risultare una bella lettura anche per chi voglia capire qualcosa in più della disgregazione della galassia jugoslava.
Rispondendo alle nostre domande, Sergio Tavčar ha dimostrato di non aver perso quella vivacità che ne contraddistinse gli esordi.
Che tipo di televisione era quella in cui lei mosse i primi passi?
«Come dice il titolo del libro, “pionieristica”, nel senso dell’OK Corral americano. Ogni telecronaca era un’avventura dal finale sempre incerto.»
Berlusconi, l’ho scoperto leggendo il suo libro, ha pure avuto un ruolo nella disgregazione della vostra rete. Al tempo, che idea se n’era fatto?
«Quella che ho ancora adesso. Una persona totalmente senza scrupoli, il più fantastico venditore mai incontrato, una persona che al momento percepiva quello che volevi sentirti dire e te lo diceva con la massima convinzione possibile, facendoti credere che lui credesse veramente a quanto diceva, anche se penso che mai in vita sua abbia detto pubblicamente una sola cosa vera. In mano a tre personaggi di intelligenza spaziale quali Federico Confalonieri, Marcello Dell’Utri e Adriano Galliani, è stato una vera e propria bomba atomica che ha cambiato radicalmente tutto il panorama politico e sociale in Italia, in modo a mio avviso purtroppo devastante, senza speranza di redenzione.»
Lei cos’ha capito dell’universo Jugoslavia e della sua disgregazione?
«Ho capito semplicemente che la retorica utopica, le belle parole e le disquisizioni intellettuali altisonanti con analisi raffinate non possono né mai potranno cambiare l’unica cosa veramente fattuale sulla quale si possa discutere: la storia. Quella bisogna sempre averla in mente e la storia è l’unica cosa che può far capire, sapendo ciò che è successo, cosa potrà mai succedere ancora. Prendiamo la Slovenia: dall’Ottocento, la fondazione dell’Impero carolingio, al 1918, parte integrante di ogni Sacro Romano impero esistente, poi Asburgo, terra di abitudini e cultura totalmente tedesche con unica capitale riconosciuta Vienna. A parte un periodo di avvicinamento culturale agli altri popoli jugoslavi ai tempi del risveglio europeo delle nazioni, a metà XIX secolo, nessun tipo di affinità né sociale né culturale con il resto della Jugoslavia. Croazia: luogo geometrico dei cattolici dei Balcani, sempre alleati degli ungheresi in funzione anti-turca, cattolici integralisti fortemente destrorsi (i polacchi al confronto sono laici puri), feroci fascisti piuttosto che alleati degli ortodossi. Quando si trattava di massacrare ortodossi non si sono mai tirati indietro. Serbia: popolo che ha una stima totalmente antistorica di se stesso. Si vede come il popolo faro dei Balcani, anche se è dal 1389 che non vince non una guerra, ma neppure una sola battaglia mai combattuta. Il primo Regno di Jugoslavia era un Regno serbo allargato, cosa che a Sloveni e Croati stava molto, ma molto sullo stomaco. Insomma, l’unica Jugoslavia che potesse esistere era quella di Tito, con il pugno di ferro del regime che teneva sotto il tappeto tutte le questioni etno-storiche. Morto Tito, tali questioni sono venute a galla e le cose sono andate come dovevano andare per necessità geopolitiche, si direbbe oggi. Sarebbero andate molto meglio se gli intellettuali onnivedenti si fossero semplicemente arresi alle necessità geopolitiche e non avessero voluto tenere in piedi artificialmente una cosa semplicemente impossibile. Secondo me, la feroce guerra jugoslava è al 100% conseguenza delle catastrofiche mosse politiche delle cancellerie occidentali. Una soluzione in stile Cecoslovacchia era possibilissima, ma nessuno la voleva. Perché, non l’ho mai capito. Forse per non dare ragione a tedeschi e austriaci che erano stati gli unici a capire come lo cose stessero veramente.»
Da cronista sportivo, quali sono state le prime avvisaglie della disgregazione della Jugoslavia? Vi rendevate conto che il sistema stava scricchiolando?
«Ma certo. Lo sapevamo tutti, ma nessuno voleva dirlo apertamente. Come scritto nel mio primo libro, fu illuminante la trasferta in autobus dei giornalisti jugoslavi di basket da Madrid a Oviedo per i Mondiali del 1986, poco dopo l’elezione di Slobodan Milošević a Segretario della Lega dei Comunisti serbi, quando cominciò a fare discorsi sul suo compito di ridare dignità al popolo serbo che Tito aveva calpestato. Facendo così rizzare tutte le antenne paraboliche a croati e sloveni, per cui la trasferta si svolse con me e il collega albanese davanti, subito dietro all’autista, seguiti a sinistra dai croati, tutti raggruppati che parlavano fra di loro, a destra dagli sloveni e dagli altri (macedoni, bosniaci) che a loro volta parlavano fra loro; in fondo, la falange serba che, a sua volta, parlava per conto suo. E questo per più di 10 ore di pullman.»
Il successo straordinario delle vostre telecronache vi sorprese? Ve ne deste una ragione?
«No, mai. Per me ancora oggi rimane il mistero più irrisoluto nella storia dei media di comunicazione audiovisiva.»
La RAI cercò mai di sedurla?
No e ne vado fiero. Alla Rai entri secondo meriti che con quelli strettamente professionali non c’entrano un emerito cavolo, per cui devi avere gli appoggi giusti e i padrini giusti, altrimenti non se ne parla nemmeno. Per quanto mi riguarda, avrei dovuto fare tutta la clientelistica trafila: tesserino di pubblicista, apprendistato e poi esame di casta per entrare nelle grazie di quelli che possono. Magari, mi avrebbero assunto facendo poi fare carriera al solito cronista con il tesserino partitico più giusto. No, grazie. Ho una dignità che spero di mantenere fino alla fine dei miei giorni.
Come riuscivano a stare insieme grandi giocatori come Dalipagić, Delibašić, Kićanović e, in seguito, Dražen Petrović, Vlade Divac, Dino Raja e Toni Kukoč, parlando lingue talvolta diverse e venendo da retroterra che dovevano già contenere il seme della disintegrazione?
«Semplicemente perché la scuola jugoslava di basket era l’unica cosa che veramente unisse il paese, per cui uno che veniva da Lubiana aveva la stessa scuola di uno che veniva da Zara, Zagabria, Belgrado, Sarajevo, eccetera e, visto che si trattava di ragazzini che avevano fatto le prime esperienze comuni nelle rappresentative giovanili, erano amici già dalla più tenera età. Le cose politiche nelle squadre di basket erano vissute con molto fastidio, proprio perché si trattava di amicizie strettamente personali che prescindevano da qualsiasi discorso politico. Poi, ovviamente, quando i nodi vennero direttamente al pettine, successe che gli amicissimi Vlade e Dražen smettessero di frequentarsi a causa di una bandiera scaraventata a terra nei Mondiali di Argentina del 1990.»
Una volte lei disse di Dražen Petrović che, giovane com’era, era già più forte di Dragan Kićanović. Cosa la colpì del suo talento?
«Chiunque si intenda veramente di basket, quando vede un talento del genere non può non catalogarlo in pochi secondi. A colpirmi fu, appunto, il suo talento, che per me, rispetto alla totale interpretazione sbagliata che si dà di questo sostantivo oggidì, significa semplicemente che il giocatore, di fronte a una ottima complessione atletica, ma soprattutto di coordinazione motoria, ha una mente con la marcia in più, che in ogni situazione processa gli eventi che si svolgono alla velocità massima possibile, producendo alla fine la soluzione più giusta in ogni situazione contingente che si crea. Il talento è semplicemente la testa che si muove più velocemente e molto meglio rispetto al resto della gente.»
La famosa scazzottata di Limoges aprì una crepa quasi politica fra Italia e Jugoslavia. È dunque vero che lo sport unisce ma divide pure?
Lo sa cosa mi hanno detto Vilfan e Dino Meneghin alla fine di una serata a Capodistria, durante gli Europei? Che, a fine partita, si sono ritrovati assieme a commentare gli eventi ridendoci sopra. Giusto per smitizzare tante di quelle cose che si sono dette. L’80%, mi creda, è stata scena. L’unico che avesse dei risentimenti veri era Kićanović per la botta gratuita in faccia, mai sanzionata, che gli aveva assestato Bonamico nel primo tempo. Il resto è folklore.
Mi pare di capire che il basket di una volta le piacesse molto di più. Sia il gioco, meno fisico, che le telecronache, meno tecniche e scientifiche…
«Puntualizzazione: una volta adoravo il basket. Ora lo sport che si pratica sotto questo nome non lo capisco, non so cosa si faccia in campo e una cosa che mi pare stupida e illogica non potrò mai apprezzarla. Il basket, per come lo concepisco io, è ormai morto e sepolto, sostituito da un neo-basket da Grande Fratello che nel mio animo non suscita assolutamente nulla. Se permette, sono convinto che le mie telecronache – non dimentichi che, quando ho cominciato, ero allenatore e istruttore di basket a tempo pieno già da più di tre anni, con tanto di patentini ottenuti sia in Italia che in Slovenia e una quarantina fra ragazzi e ragazze alle mie dipendenze – fossero molto più scientifiche dal punto di vista della spiegazione e della diffusione del gioco vero del basket rispetto alle fumosissime interpretazioni pseudo-scientifiche odierne che hanno la straordinaria caratteristica di non parlare mai veramente dell’unica cosa che conti, ovvero capire il basket e cosa si sta a fare in campo.»
Luka Dončić e Nicola Jokić sono due dei cinque (forse dei tre) migliori giocatori del mondo. Che legame hanno con la vecchia Jugoslavia? Oggi ci sono giocatori americani che militano nei campionati dell’ex-Jugoslavia. Lo avrebbe mai immaginato quando lavorava per Koper?
«Domanda un po’ spiazzante, nel senso che nessuno era profeta cinquant’anni fa. Avremmo dovuto immaginare anche la disgregazione politica della Jugoslavia. Luka e Nikola sono grandi amici, assieme a tutto il resto del contingente ex-jugo dell’NBA, e adorano prendere in giro il nero di turno dalla faccia feroce per farlo saltare alla prima finta e poi prenderlo per i fondelli. In questo saranno sempre ex-jugo “brothers in arms”. Da questo punto di vista, un po’ della vecchia mentalità balcanica resiste ancora, grazie e Dio.»