di Antonio Salvati
Certamente nessuno di noi ama il dolore. Da decenni nella società occidentale registriamo una progressiva rimozione del dolore e della sofferenza. Tendiamo ad ostentare efficienza e salute. E stiamo disimparando l’arte di patire il dolore. In realtà, è impossibile eliminare il dolore.
Esso scaturisce dall’incontro con l’altro, con l’alterità. Non c’è crescita senza dolore. Solo il dolore produce un reale cambiamento. La formazione presuppone una via dolorosa. È la convinzione di Byung-chul Han – filosofo di origine sudcoreana che insegna in Germania ed è oggi tra i pensatori più seguiti – che illustra nel suo breve ma denso pamphlet, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite (Einaudi 2021 € 8,50 pp. 88). Per Han «senza dolore non abbiamo né amato né vissuto. La vita viene sacrificata in nome della sopravvivenza confortevole. Solo una relazione vissuta, un’effettiva coesistenza ha accesso al dolore». Il dolore genera vincolo. Chi rifiuta qualsiasi circostanza dolorosa «è incapace di vincolarsi. Oggi vengono evitati i vincoli intensi, che potrebbero far male». Non dobbiamo aver paura del dolore e Han invita a non vederlo come segno di debolezza e fragilità. La felicità è necessariamente intrecciata e accompagnata dal dolore. Se evitiamo il dolore diventiamo anche insensibili alla felicità. Tutte le intensità delle emozioni e delle passioni in sé sono dolorose perché presuppongono un cambiamento e insidiano i nostri equilibri e la nostra pace. Se cerchiamo di attenuarle indeboliamo allo stesso tempo la nostra possibilità di essere felici.
In altri termini, oggi è fortemente diffusa una algofobia, una paura generalizzata del dolore. Anche la soglia del dolore crolla con rapidità. L’algofobia – spiega Han – ha come conseguenza un’anestesia permanente. «Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d’amore sono diventate sospette. L’algofobia si estende nell’ambito sociale. Ai conflitti e alle controversie che potrebbero condurre a confronti dolorosi viene riservato uno spazio sempre minore. L’algofobia interessa anche la politica. Aumentano la spinta al conformismo e la pressione del consenso. La politica s’installa in un’area palliativa e smarrisce qualsiasi vitalità». La «mancanza di alternative» è un analgesico politico. Il «centro» diffuso sortisce un effetto palliativo. Invece di discutere, di lottare per argomenti migliori, «ci si abbandona alle imposizioni del sistema. Si fa cosí strada una post-democrazia. Una democrazia palliativa».
Motivo per cui – racconta Han – Chantal Mouffe chiede una «politica agonistica» che non scansi i confronti dolorosi. La politica palliativa manca di visione e non sa realizzare riforme incisive, che potrebbero far male. Preferisce «ricorrere ad analgesici di breve efficacia che si limitano a velare disfunzioni e fallimenti sistemici. La politica palliativa non ha il coraggio del dolore. Quindi perpetua l’Uguale».
Il filosofo sudcoreano mette le sue riflessioni in relazione con parti importanti del pensiero filosofico a cavallo tra il XIX e il XX secolo, citando Jünger, Heidegger e Nietzsche. E registra un cambio di paradigma non solo sanitario, ma sociale e politico. Anche l’eccesso d’immagini di dolore e violenza nei mass media e in rete – sottolinea Han – ci induce ad assumere un atteggiamento passivo e all’indifferenza tipiche dello spettatore che tace. La loro massa è tale che non riusciamo a elaborarle cognitivamente. S’impongono alla percezione. Da esse non emana piú quell’imperativo morale cui tiene fede Susan Sontag: «L’immagine dice: ponigli fine, intervieni, agisci». L’ammasso d’immagini di violenza e dolore «fa sí che la percezione si stacchi del tutto dall’azione, poiché questa presuppone un’attenzione intensa, un coinvolgimento. Esso non emerge anche solo per via della nostra attenzione frammentata. La consueta supposizione antropologica secondo la quale l’essere umano si comporta da voyeur nei confronti del dolore altrui non basta a spiegare il rapido declino della capacità di provare empatia. La crescente perdita di empatia rimanda al fatto, carico di conseguenze, che l’Altro sta scomparendo. La società palliativa sconfigge l’Altro in veste di dolore. L’Altro viene reificato, diventando un oggetto. L’Altro in forma di oggetto non fa male». In tempi di pandemia, il dolore degli altri si è disperso nei «numeri dei casi». Le persone muoiono sole nelle terapie intensive senz’alcuna attenzione umana. Vicinanza significa infezione. Il «distanziamento sociale» rafforza la perdita d’empatia. «Si trasforma in un distanziamento mentale. L’Altro è ora un potenziale portatore del virus dal quale bisogna prendere le distanze. Il “distanziamento sociale” progredisce diventando un atto di distinzione sociale. Oggi siamo dominati, intontiti, inebriati dall’ego. L’ego narcisistico che va rafforzandosi incontra soprattutto sé stesso nell’Altro. Anche i media digitali favoriscono la scomparsa dell’Altro. Riducono la resistenza dell’Altro rendendolo disponibile. Riusciamo sempre meno a percepire l’Altro nella sua alterità. Se ne viene spogliato, ecco che l’Altro si lascia solo consumare». La sensibilità nei confronti dell’Altro presuppone una «esposizione», l’offrirsi «fino alla sofferenza». Essa è dolore. Senza questo «dolore primordiale l’Io rialza la testa, il per-sé, e reifica l’Altro. Solo il dolore dell’esposizione sottrae l’Altro all’intervento dell’Io. Nella forma di un dolore etico, meta-fisico, esso è preordinato a quel dolore che percepisco come mio. È un dolore verso l’Altro, un’esposizione originaria piú passiva di qualsiasi passività dell’Io. Il dolore dell’esposizione, che precorre anche la compassione, rende impossibile il confortevole ritorno a sé, il piacere di sé».
Significativamente Elias Canetti chiama «nudità dell’anima» la mancanza di protezione dinanzi all’Altro che rende vulnerabili. Essa è responsabile dell’inquietudine che ci fa mettere nei panni dell’Altro. Rende impossibile essere indifferenti nei confronti dell’Altro: «Egli pensa alla misera cerchia delle sue frequentazioni e alla sua vita interiore, pensa anche che nella vecchiaia ama sempre piú convulsamente e fortemente, assillato non già dalla propria morte, bensí, incessantemente, da quella dei suoi cari: pensa che sempre meno può essere «oggettivo», e mai indifferente, verso questi intimi; che disprezza tutto ciò che non sia respirare, sentire e discernere. Ma pensa anche che non vuole vedere gli altri, che ogni persona nuova lo eccita fin nelle profondità piú profonde, che da questa eccitazione non può difendersi né col rifiuto né col disprezzo, che è totalmente inerme alla mercé di chiunque (anche se costui non se ne accorge), che per causa sua non può avere pace, non può dormire, non sognare, non respirare […]». La nudità dell’anima si esprime nella forma di un’angoscia per gli altri. È solo questa angoscia per gli altri a insegnarmi chi sono: «Come può succedere che soltanto nell’angoscia io sia pienamente me stesso? Sono stato educato all’angoscia? Soltanto nell’angoscia mi riconosco. Una volta superata, essa diventa speranza. Ma è angoscia per altri. Ho amato le persone per la cui vita sono stato in angoscia». In altri termini, l’angoscia diffusa per sé stessi sovrasta l’angoscia per gli altri. Senza il dolore verso l’Altro non abbiamo accesso al dolore dell’Altro.
Mons. Vincenzo Paglia è più volte intervenuto sul dolore e sui temi relativi all’eutanasia. Paglia nega che il dolore nella dottrina cristiana sia di per sé un valore. E cita Paul Claudel: «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza; è venuto a riempirla della sua presenza». Aggiunge: «Anestetizzare la vita di ogni dolore non solo è vano ma è anche pericoloso». Paglia vede nella propaganda per il diritto alla morte la «strada dell’assoluzione dell’atto di dare la morte a una vita, ossia una persona giudicata indegna della vita». E quale sarebbe il discrimine tra una vita degna e indegna di essere vissuta? Claudio Magris scrisse che «l’eutanasia può divenire facilmente un’obbrobriosa, anche se inconscia, igiene sociale». In un dialogo con Luigi Manconi affermò che «su temi delicati e cruciali come quello dell’eutanasia ci sia un effettivo dialogo e una conoscenza adeguata da parte di tutti: ciascuno (realtà religiose comprese) deve poter esprimere le proprie opinioni». Spesso silenziate a favore della narrazione della libertà assoluta. Va capito, ad esempio, «se il soggetto che chiede l’eutanasia vuole davvero morire o solo che gli venga tolto il dolore», perché «là dove questo è stato chiarito la domanda di eutanasia è calata drasticamente. Si deve dire, inoltre, che oggi la scienza prevede cure che tolgono il dolore provocato da qualunque tipo di malattia o infermità fino alla fine». Intanto «le cure palliative vanno garantite a tutti e gratuitamente». In Italia, ricorda Paglia, «già da ora è possibile morire senza essere torturati dal dolore». «Le cure palliative rispondono così a quella paura di soffrire che spesso determina una richiesta di accelerare la morte. Quando la persona malata si accorge che il dolore può essere sconfitto e che non è abbandonato da sola nella prova che sta attraversando, non solo si rasserena, ma può anche scoprire una profondità nelle relazioni e delle luci nella vita, che non si sarebbe mai immaginato. Tuttavia, non per tutti è così». Il modo con cui ciascuno si avvicina alla morte è molto personale: non c’è nulla di più violento e irrispettoso che dire agli altri quello che significa la sofferenza, come fanno gli amici di Giobbe, contro i quali giustamente il personaggio biblico si ribella. La malattia – ricorda Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio – rivela la profonda fragilità della donna e dell’uomo, del forte e del ricco, del potente come del povero e del debole. Quanti salmi e quante pagine della Bibbia sono dedicati alla condizione, alla realtà, ai sentimenti, ai dolori, alla preghiera del malato? Nei Vangeli, l’attenzione di Gesù ai malati, alla loro sofferenza, occupa una posizione di primo piano. Ed è così fin dalle prime pagine quando Gesù inizia la sua vita pubblica. La cura dei malati è una dimensione essenziale della sua stessa missione. Non fugge dal dolore. Gesù si prende cura dei malati non in modo generico ma con l’impegno di guarirli dalla malattia. I Vangeli, infatti, parlano di guarigioni più che di generica attenzione, ossia di azioni che ridanno la salute ai malati. Sono più di trenta i racconti di guarigione riferiti nei Vangeli su un totale di 53 miracoli. L’alto numero sta a significare l’importanza che Gesù annetteva alle guarigioni nella sua missione. Ne parlano diffusamente Maria Cristina Marazzi, Ambrogio Spreafico e Francesco Tedeschi, autori del pregevole volume Le guarigioni nella Bibbia. Da Giobbe a Paolo (Morcelliana 2023 pp. 224, € 18,00). Soprattutto spiegano il valore della visita ai malati praticato daGesù. La visita è l’inizio, «il minimo, ma tutto comincia da lì. Non bisogna mai rinunciare ad andare nei luoghi di dolore, anche quando sembra si possa fare poco. Andare, guardare, è già cominciare ad amare e portare nel cuore. Vedere permette di non dimenticare (…) Senza vedere è molto più difficile amare». Lo sguardo rende responsabili di ciò che si vede e di chi si vede. Vedere significa cambiare il cuore e nella visita «si rendono visibili quelli che agli occhi di tanti sono “invisibili” perché nessuno li guarda». La visita strappa il malato dall’isolamento e dalla disperazione, rappresenta sempre una piccola guarigione. E non pochi oggi sostengono il valore terapeutico della visita. Fa bene a tutti, a chi la pratica e a chi la riceve.