Il dispositivo di sicurezza più reclamato da ormai più di un anno: chirurgiche o Ffp che siano, le mascherine stanno avendo un ruolo importante e decisivo nel limitare la diffusione dei contagi con il virus Sars-Cov-2 (e pure dell’influenza stagionale), ma rappresentano allo stesso tempo una forma di inquinamento che sta danneggiando i nostri ecosistemi, a partire dagli oceani.
Nel corso del 2020 e nel primo trimestre del 2021, contestualmente all’emergenza sanitaria globale, il numero di mascherine prodotte e utilizzate è cresciuto enormemente, facendo emergere con forza il problema del loro smaltimento.
Un allarme che è stato lanciato anche dall’Istituto superiore di sanità e dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (l’Ispra).
Quante mascherine si usano nel mondo – Rispetto al pre-pandemia, il numero di mascherine utilizzate è aumentato in maniera smisurata: basta pensare che il mercato dei dispositivi di protezione individuale è passato da un valore di 800 milioni di dollari del 2019 a 166 miliardi di dollari del 2020.
Rimanendo in termini numerici, attraverso analisi statistiche è emerso che a livello globale vengono utilizzate 129 miliardi di mascherine al mese, ossia 3 milioni al minuto.
A causa del nuovo coronavirus è aumentato di molto anche il consumo di altri prodotti in plastica, che contribuiscono a inquinare il nostro pianeta.
Tra questi si possono citare anzitutto i guanti monouso (65 miliardi di paia al mese a livello globale) e bottigliette di varie dimensioni di gel idroalcolico.
In senso lato, poi, le precauzioni anti-contagio hanno portato anche ad aumentare l’uso di contenitori monouso, di vaschette per alimenti e di altra oggettistica in plastica che negli ultimi anni si stava cercando di utilizzare sempre meno.
Il problema ambientale – In commercio esistono mascherine di molti tipi diversi, ma nella grande maggioranza dei casi quelle utilizzate sono usa e getta, non a caso responsabili numero uno di questa nuova forma di inquinamento.
Le più conosciute sono le mascherine chirurgiche, che sono composte da 3 strati: uno esterno non assorbente costituito da poliestere, uno intermedio composto da tessuti come Propropilene e polistirolo, infine uno interno assorbente formato da cotone.
A destare grande preoccupazione sono soprattutto le microfibre di plastica, che possono originarsi durante la realizzazione delle mascherine, ma anche durante l’uso e il successivo smaltimento.
Oltre alla parte multistrato della mascherina ci sono poi gli elastici e la barretta metallica per stringere il dispositivo in maniera adeguata sul naso.
Alcuni indicatori suggeriscono che circa il 75% delle mascherine impiegate nel mondo finisca nelle discariche, o peggio ancora una parte di queste arriva agli oceani
Un dato certamente allarmante è che nel corso del solo 2020 sono finite negli oceani oltre 1 miliardo e mezzo di mascherine, contribuendo a creare problemi alla flora e alla fauna marina.
A complicare ancora di più la situazione sono i tempi necessari affinché una mascherina si degradi: si stima infatti che servano circa 450 anni prima che un dispositivo di protezione individuale si decomponga completamente.
Non esistono linee guida per il riciclo – La produzione delle mascherine, dal punto di vista della filiera, è simile a quella delle bottiglie di plastica, ma per queste ultime sono previsti chiari protocolli di smaltimento che determina perlomeno il riciclo di circa un quarto dei prodotti di rifiuto.
Anche se la strada da fare è ancora molta, per le bottiglie la strada da seguire per una reale sostenibilità è quantomeno tracciata.
Al contrario, i dispositivi di protezione individuale vengono semplicemente gettati nel bidone dei rifiuti indifferenziati, o peggio ancora abbandonati a terra per incuranza, distrazione o menefreghismo.
Dai cestini o dai bidoni della raccolta urbana, poi, le mascherine vengono smaltite attraverso gli inceneritori (con i conseguenti problemi di inquinamento atmosferico), oppure portate nelle discariche insieme a tutti gli altri rifiuti non recuperabili.
Di certo, la situazione oggi è particolarmente complessa, tanto da un punto di vista normativo quanto logistico e tecnologico.
Anzitutto per via della grande quantità di mascherine prodotte, che in poco più di un anno ha generato un volume di rifiuti mastodontico, poi per la presenza di 3 strati differenti che complicano il processo di recupero e riciclo e, infine, per la rapidità con cui il tutto è avvenuto.
La pandemia ha richiesto un improvviso e imprevisto aumento della produzione, ma in parallelo non è stato creato un protocollo per la tutela dell’ambiente e la gestione di questo rifiuto.
Tra le soluzioni più ragionevoli, almeno per quanto ritenuto possibile a oggi, vanno citate la possibilità di introdurre bidoni specifici per la raccolta delle mascherine, oppure in alternativa l’incentivo alla produzione di mascherine biodegradabili.
Un’altra soluzione per diminuire il numero di mascherine da smaltire è di aumentare l’utilizzo di quelle in cotone o in altri tessuti riutilizzabili, sempre ammesso che rispettino tutti i requisiti di sicurezza ed efficacia previsti dalle normative.
I danni alla fauna marina – Già da anni i problemi relativi al grande utilizzo della plastica e al suo scorretto smaltimento sono ben visibili negli oceani e nelle acque del nostro pianeta.
Si stima che ogni anno finiscano in mare circa 8 milioni di tonnellate di plastica. La situazione è ulteriormente peggiorata con la pandemia: i guanti, così come le mascherine, sono un pericolo per gli animali marini, che rischiano di rimanere intrappolati, scambiando questi rifiuti per meduse o altri pesci.
Inoltre, esiste un rischio reale che possano essere contaminati anche i cibi che mangiamo. Questo perché i dispositivi di protezione individuale rilasciano micro-particelle di plastica, che vengono mangiate dai pesci che poi finiscono sulle nostre tavole.
Insomma non si tratta di un rischio astratto o che non ci riguarda, ma i danni sono già consistenti e visibili, per gli esseri umani e non solo.