Il Foglio non è certo un giornale che guarda a sinistra. Ma è un giornale serio, informato, molto attento al quadro internazionale. Un giornale autorevole. E non è certo dettata da pregiudizi ideologici l’analisi critica sulla politica mediterranea del governo Meloni fatta da Lucio Gambardella.
Scrive Gambardella: “Il Piano Mattei di Giorgia Meloni si sta ingolfando a Tripoli. Dopo poche ore dalla firma dell’accordo sul gas di sabato scorso, il ministro libico del Petrolio e del Gas ha dichiarato che l’intesa con Eni non è valida. Era uno dei rischi ventilati alla vigilia dell’intesa con uno stato fragile e caotico come la Libia, appesa a equilibri precari. Succede così che i termini dell’investimento appena siglato siano contestati dallo stesso governo con cui la compagnia petrolifera italiana ha concluso l’accordo. Gli 8 miliardi di dollari annunciati dall’ad di Eni, Claudio Descalzi, e da Meloni per fare entrare in produzione due giacimenti di gas offshore in realtà sarebbero da dividere a metà fra Roma e Tripoli. La precisazione – per nulla marginale – arriva dal ministro Mohamed Aoun, che già prima della firma aveva avanzato riserve sulle condizioni del contratto”.
Le cose stanno così. Ma a Palazzo Chigi sembrano far finta di niente.
Radiografia di un caos
Ne scrive Leonardo Sgura, corrispondente dal Cairo di Rai News: “L’Italia da sempre ha con la Libia un rapporto strategico. E’ il primo partner commerciale di tripoli, con affari per 12 miliardi di euro, pari a circa un quarto delle importazioni totali.
L’economia libica poggia per il 97% su gas e petrolio, settore i cui investimenti sono però bloccati da undici anni di guerra e divisioni tra est e ovest. Questi investimenti aspettano di essere rilanciati per sfruttare ricchi giacimenti di gas nel mare al largo di Tripoli, con progetti di cui l’italiana Eni è protagonista: in Libia dal 1959, Eni non ha mai abbandonato il Paese, è la prima compagnia straniera ed è comproprietaria del gasdotto che dal 2004 collega Mellitah a Gela.
Il problema resta l’affidabilità di una Libia divisa. Con la mediazione di Onu, Stati Uniti, Egitto (che sostiene la Cirenaica di Kalifa Haftar), e Turchia (alleata della Tripolitania guidata da Abdul Hamid Dbeibeh), da mesi si cerca un accordo per le elezioni politiche, già saltate alla fine del 2021, che dovrebbero riunificare il Paese.
Ma Tripoli e Tobruk, in qualche modo, sono comunque entrambe controparti della missione italiana, che fa tappa solo nella Tripoli di Dbeibeh, è vero, ma coinvolge anche la Noc, compagnia petrolifera di stato oggi guidata proprio da un uomo di Haftar, Farhat Bengdara.
E’ infatti proprio Bengdara a firmare con Eni gli accordi sui nuovi 8 miliardi di investimenti, nonostante le proteste del premier parallelo, Fathi Bashaga, preoccupato che la missione della Meloni diventi un formale riconoscimento dell’avversario.
Più complesso il dossier migranti. Gli accordi con l’Italia per migliorare il pattugliamento delle coste in questi ultimi anni non sono riusciti a fermare i trafficanti di uomini che alimentano le partenze illegali via mare, perché il controllo del territorio è in realtà nelle mani di decine di bande armate ed eserciti privati spesso complici delle organizzazioni criminali.
Per un contrasto vero al business delle migrazioni illegali, occorre stabilizzare e riunificare il Paese. Una partita delicata, complicata dagli interessi che altri Paesi hanno verso la Libia.
Il labirinto di un conflitto tribale, gli appetiti dei vicini ambiziosi
L’Egitto, insieme agli Emirati arabi uniti, è vicino alla Cirenaica, ampia regione orientale confinante con l’Egitto, il cui esercito nazionale è comandato dal generale Haftar, protagonista della guerra civile divampata nel 2014, due anni dopo la caduta di Gheddafi, con l’obiettivo di prendere il controllo di tutto il paese, in particolare della compagnia petrolifera e della banca centrale, conquistando Tripoli e spodestando il Governo di Accordo Nazionale guidato all’epoca da Al Serraji, sostenuto da Turchia e Qatar.
Insieme all’Egitto, dunque, l’altro Paese direttamente coinvolto nella questione libica, è proprio la Turchia che nel 2020, quando la caduta di una Tripoli sotto assedio sembrava ormai imminente, è intervenuta militarmente nel conflitto salvando Al Serraji: sia inviando truppe, per lo più mercenari; sia impiegando i propri droni per bombardare l’esercito della Cirenaica.
L’intervento turco spinse Serraj e Haftar alla tregua, arrivata ad agosto del 2020, e poi agli accordi – mediati dall’Onu – che insediarono a marzo 2021 il governo provvisorio di Dbeibeh, il quale aveva il compito di gestire le elezioni, fissate al 24 dicembre 2021, per la riunificazione politica del paese.
Quelle elezioni non si sono mai svolte, per una serie di contrasti sulle “regole” relative alle candidature. sia Dbeibeh che Haftar intendevano e ancora oggi intendono candidarsi alla guida della Libia, ma una serie di veti incrociati hanno impedito di trovare una base “costituzionale” condivisa che permetta ad entrambi di correre per la presidenza.
Gli accordi prevedevano anche che, prima del voto, venissero ritirate le truppe straniere presenti nel Paese, compreso un contingente dei mercenari della Wagner, inviato dalla Russia a sostegno di Haftar.
Altro punto da realizzare prima delle urne era il disarmo delle milizie private, seguito dalla riunificazione delle forze armate e degli apparati di sicurezza.
Tutti impegni che non sono mai stati rispettati, mentre la Turchia, nella confusione generale, ha chiuso con Tripoli accordi – contrari al diritto internazionale – in base ai quali comunque accampa pretese sui giacimenti di gas del Mediterraneo orientale.
Su tutto questo si continua a trattare.
I colloqui tra le fazioni libiche da mesi si svolgono al Cairo, con la mediazione egiziana, tra delegazioni dei contrapposti organi legislativi, cioè la camera dei rappresentanti, che ha sede a Tobruk e sostiene il governo Bashaga, e l’Alto Consiglio di Stato, il “Senato” che ha sede a Tripoli e sostiene il premier Dbeibeh. Due settimane fa, dopo l’ultimo round di trattative, il portavoce della Camera dei Rappresentanti, Aguila Saleh, ha annunciato che c’è un’intesa sulle regole per le candidature, dicendosi ottimista sulla possibilità di andare alle urne entro il prossimo settembre. Ottimismo ridimensionato, poche ore dopo, dallo stesso Saleh, precisando che l’accordo è ancora in una fase embrionale. Parole identiche ha usato il capo del Consiglio di Stato, Khalid al Mishri, raffreddando gli entusiasmi degli osservatori internazionali.
Una tela di Penelope intricatissima, che spiega la ragione per cui, sul fronte internazionale, la diplomazia italiana sta lavorando anche a stretto contatto con Egitto e Turchia, Paesi cruciali per raggiungere l’obiettivo di una concreta stabilizzazione della Libia”.
Le “due Libie”.
E’ la volta di Federico Manfredi Firmian (Sciences Po, Ispi, Università di Sheffield). Che in un recente report per l’Istituto di Studi di politica internazionale, annota tra l’altro: “La Libia rimane politicamente e territorialmente divisa fra due governi rivali. I fronti militari sono calmi e la guerra civile non è imminente ma la situazione resta instabile.
La capitale Tripoli ed il nord ovest del paese sono controllati dal Governo di unità nazionale (Gnu), attualmente guidato del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah. Il governo di Tripoli è riconosciuto a livello internazionale e occupa il seggio della Libia alle Nazioni Unite e all’Unione africana, ma è meno unito di quanto sembri. Dbeibah è una figura politica che rappresenta un compromesso fra i poteri forti dell’ovest, che includono le milizie islamiste di Tripoli e Misurata e interessi economici legati a reti di clientelismo.
L’est del paese e vaste zone della Libia centrale sono nominalmente sotto l’autorità della Camera dei Rappresentanti, la legislatura unicamerale della Libia, che nel marzo 2022 ha creato un governo parallelo con Fathi Bashagha come primo ministro. In realtà, è il generale Khalifa Haftar a governare questi territori in modo autoritario.
I due campi si reggono fondamentalmente su network di forze armate e milizie organizzate a livello locale e regionale, ma mantengono al tempo stesso complesse alleanze internazionali che hanno loro permesso di perdurare negli anni. Il governo di Tripoli ha l’appoggio militare della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. La Russia, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti sono invece i principali alleati di Haftar.
Le divisioni della Libia di oggi non sono un semplice conflitto est-ovest. I due pretendenti al potere, Dbeibah e Bashagha, non sono distinguibili l’uno dall’altro né per ideologia né per provenienza. Sia Bashagha sia Dbeibah sono originari di Misurata ed entrambi hanno l’appoggio di fazioni islamiste. Un altro fattore che li accomuna è che non hanno legittimità democratica. Le ultime elezioni nazionali in Libia si sono tenute nell’ormai lontano 2014. Quanto a Haftar, nonostante si sia efficacemente posizionato come uomo forte anti-islamista, il suo Esercito nazionale libico conta fra le sue file diversi battaglioni salafiti e il generale lascia loro campo libero in materia di questioni religiose.
Le élite politiche della Libia sono interessate principalmente a ottenere posizioni di potere nel governo e nelle forze di sicurezza, a controllare le finanze pubbliche e le infrastrutture energetiche e a gestire le alleanze internazionali.
La Libia è un petrostato: nel 2021, i proventi del petrolio hanno rappresentato il 98% delle entrate pubbliche, secondo dati della Banca centrale della Libia. Le autorità di Tripoli controllano la compagnia petrolifera nazionale, la National Oil Corporation (Noc), e la Banca centrale, e riscuotono quindi la totalità dei proventi della produzione di idrocarburi. Ma le forze di Haftar controllano l’intera “mezzaluna del petrolio” nell’est del paese, così come cinque dei principali porti petroliferi della Libia: Es Sider, Ras Lanuf, Zueitina, Brega e Hariga. (Gli altri due principali porti petroliferi, Mellitah e Zawiya, sono nell’ovest del paese.)
Haftar non può vendere il petrolio direttamente sui mercati internazionali ma può bloccare fino a ¾ della produzione e dell’esportazione, cosa che ha fatto ripetutamente negli anni per forzare il governo di Tripoli a cedergli una percentuale dei proventi.
Un accordo segreto fra Haftar e Dbeibah, probabilmente mediato dagli Emirati Arabi Uniti, ha portato alla nomina di Farhat Bengdara al posto di direttore della Noc nel luglio 2022. I termini dell’accordo non sono pubblici ma da quando Bengdara ha preso le redini della Noc la completa ripresa della produzione e delle esportazioni di petrolio in tutta la mezzaluna dell’est indica che Haftar sta incassando una percentuale dei proventi.
Da un punto di vista politico e militare, la Libia resta in una situazione di stallo. Il paese rimane diviso, malgovernato, suscettibile a sporadici scontri armati su scala limitata e ad abusi dei diritti dei cittadini libici e dei migranti. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha inoltre complicato ulteriormente il processo di mediazione dell’Onu in Libia”.
Continuiamo ad armarli
Scrive Duccio Facchini su Altreconomia del 24 ottobre 2022: L’Italia fornirà altre 14 imbarcazioni alle milizie libiche per intercettare e respingere le persone in fuga nel Mediterraneo. La commessa è stata aggiudicata definitivamente nella primavera di quest’anno per 6,65 milioni di euro nell’ambito di una procedura curata da Invitalia, l’agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia che sulla carta dovrebbe occuparsi dell’”attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa” e che invece dall’agosto 2019 ha stipulato una convenzione con il ministero dell’Interno per garantire “supporto” tecnico anche sul fronte libico. La copertura finanziaria dei nuovi “battelli” è garantita, così come tante altre, dalla “prima fase” del progetto “Support to integrated Border and migration management in Libya” (Sibmmil) datato dicembre 2017, cofinanziato dall’Unione europea, implementato dal Viminale e inserito nel quadro del Fondo fiduciario per l’Africa (Eutf).
Si tratta in questa occasione di 14 mezzi “pneumatici con carena rigida in vetroresina” da 12 metri -come si legge nel capitolato di gara-, in grado di andare a una velocità di crociera di almeno 30 nodi, con un’autonomia di 200 miglia nautiche, omologati al trasporto di 12 persone e destinati a “svolgere i compiti istituzionali delle autorità libiche” (è la seconda tranche di una procedura attivata oltre tre anni fa). Quali non si poteva specificarlo. Anche sull’identità dei beneficiari libici c’è scarsa chiarezza da parte di Invitalia, il cui amministratore delegato è Bernardo Mattarella. Negli atti non si fa riferimento infatti né all’Amministrazione generale per la sicurezza costiera (Gacs) né alla Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim), che opera sotto il ministero dell’Interno libico, quanto a una generica “polizia libica”.
Chi si è assicurato la commessa, con un ribasso del 5% sulla base d’asta, è stata la società B-Shiver Srl con sede a Roma. B-Shiver è la ragione sociale del marchio Novamarine, nato a Olbia nel 1983 e poi acquisito negli anni dal gruppo Sno. “È uno dei must a livello mondiale perché ha fatto una rivoluzione nel campo dei gommoni, con il binomio carena vetroresina e tubolare”, spiega in un video aziendale l’amministratore delegato Francesco Pirro.
B-Shiver non si occupa soltanto della costruzione dei 14 mezzi veloci ma è incaricata anche di “erogare un corso di familiarizzazione sulla conduzione dei battelli a favore del personale libico”: 30 ore distribuite su cinque giorni.
Nell’ultima versione del capitolato sembrerebbe sparita la possibilità di predisporre in ogni cabina di pilotaggio dei “gavoni metallici idonei alla custodia di armi”, come invece aveva ipotizzato il Centro nautico della polizia di Stato nelle prime fasi della procedura di gara.
Le forniture italiane alla Libia per rafforzare il meccanismo di respingimenti delegati continuano, dunque, a oltre cinque anni dal memorandum tra Roma e Tripoli in fase di imminente rinnovo. Un accordo che ha prodotto “abusi, sfruttamento, detenzione arbitraria e torture”, come denunciano oltre 40 organizzazioni per i diritti umani italiane”.
Ma da questo “orecchio” la presidente del Consiglio non ci sente.
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