Escono i documenti: così la Cia torturava dopo l'11 settembre

Declassificate nuove carte degli 007: umiliazioni e violenze da vergognarsi

Prigionieri ad Abu Ghraib
Prigionieri ad Abu Ghraib
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16 Giugno 2016 - 21.27


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Violenze di ogni tipo: ammanettati al muro, appesi a testa in giù, rinchiusi dentro bare, umiliati, sottoposti ripetutamente al waterboarding, lasciati morire di freddo. Sono solo alcune delle torture a cui sono stati sottoposti dalla Cia i detenuti dopo l’11 settembre. Le nuove rivelazioni sono emerse da una cinquantina di documenti declassificati in questi giorni dal governo dopo la richiesta avanzata dalla American Civil liberties Union e da Vice news sulla base del Freedom information Act. Dalla carte si nota anche come l’allora presidente Usa, George W Bush, fosse preoccupato solo dell’immagine di un detenuto incatenato al soffitto e con un pannolino.

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Molti dettagli sui programmi di tortura dell’intelligence americana erano già stati resi pubblici, anche da un rapporto di 500 pagine della commissione intelligence del Senato nel 2014, ma tutto si basava su memo del governo. Ora spuntano anche le prime testimonianze dirette, riportate da alcuni media americani e stranieri. Come quella di Abu Zubaydah, arrestato nel 2002 perché ritenuto erroneamente un alto dirigente di Al-Qaida: “Avevo i ceppi ovunque, anche alla testa, non potevo fare nulla”, ha raccontato in una udienza del 2007 a Guantanamo davanti ad una commissione di ufficiali. “Poi mi hanno messo un panno in bocca e hanno cominciato a buttare acqua, acqua, acqua, ha proseguito descrivendo la pratica del waterboarding, cui e’ stato sottoposto 83 volte in un mese. Lo facevano finché non smetteva di respirare e i medici lo riportavano in sè. All’ultimo momento, prima che morissi, si fermavano. Io gli dicevo: ‘se volete uccidermi, fatelo”. Invece, aspettavano che riprendesse fiato e ricominciavano.

Abu Zubaydah ha raccontato anche di essere stato costretto a restare in piedi per ore, legato e nudo, in una stanza fredda, con una gamba ferita. E di aver dovuto fare i propri bisogni in un secchio davanti ad altra gente, come un animale. Abu Zubaydah, un cittadino saudita catturato in Pakistan nel 2002, è stato confinato per 11 giorni in una scatola grande poco più del suo corpo e altre 29 ore in una scatola ancor più piccola, 76x76x53 cm. Si trova ancora agli arresti a Guantanamo. Lo stesso vale per Abd al-Rahim al-Nashiri, che oltre a restare per una settimana dentro una di queste scatole è rimasto appeso a testa in giù per quasi un mese, ha subito il waterboarding, la minaccia di un’arma e di un trapano elettrico vicino alla testa.

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Gul Rahman, 34 anni, non ha potuto raccontare il suo incubo perché morto di ipotermia dopo aver subito il metodo della “catena corta”, in una prigione Cia vicino all’aeroporto di Kabul: mani ammanettate, piedi ammanettati, e poi una catena corta tra mani e piedi per costringerlo a stare seduto, nudo dalla vita in giù, su un pavimento di cemento freddo. Il giorno dopo l’hanno trovato morto. L’autopsia dell’epoca recita “per cause sconosciute” ma la conclusione clinica fu di ipotermia. Nessuno è stato chiamato a risponderne.

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