Il diario di Lorenzo è stato girato a Globalist da Claudio Locatelli, combattente Ypg nelle campagne internazionali di liberazione di Tabqa e Raqqa, giornalista freelance e divulgatore che si occupa di Medio Oriente.
Nella sua pagina Facebook dal titolo “Il giornalista combattente” Claudio Locatelli informa, analizza e riporta testimonianze dal campo, fungendo da raccordo con la realtà di fronte ed i combattenti italiani ancora impegnati nel nord della Siria.
“Siamo di nuovo in viaggio.
Il freddo dell’ inverno sta calando e le colline s’addobbano di fiori. Strisce gialle e viola serpeggiano tra le file d’ulivi, donando alla provincia di Afrin un aspetto fiabesco. Il cielo è limpido e sono sereno: qualunque cosa mi attenda sono pronto.
Il villaggio dove ci troviamo è ad una decina di km dal fronte, la popolazione è ancora nelle loro case, e dei nostri saremo sì e no una dozzina. Eppure, nonostante la grande quantità di civili, e nonostante fossimo lì solo di passaggio, i Turchi non si faranno il minimo problema a far piovere mortai tutta la notte. Il giorno dopo aiutiamo i superstiti a raccogliere le proprie cose ed andarsene. Alcuni fuggiranno ad Afrin, altri in qualche villaggio più distante. Molti sono anziani; si trovano a dover lasciare le case dove hanno trascorso una vita intera, il loro bestiame, il loro piccolo pezzo di terra. Alcuni piangono. Noi restiamo lì, in attesa d’istruzioni.
I droni ci sorvegliano sempre, cambiamo casa molto spesso e ci muoviamo quando tra l’uno e l’altro si danno il cambio. Davanti a noi, ai piedi di due grosse alture, si trova la città di Badina. Il fronte è avanzato di cinque km nella notte, e l’Fsa ha conquistato un gruppo di case proprio sopra la città. Da quelle parti si combatte furiosamente; mitragliatori e mortai non si zittiscono un attimo. Quando fa buio la collina brilla, e in quel tripudio di luci ed esplosioni si fa fatica pure ad addormentarsi. Vanno avanti ora dopo ora, giorno dopo giorno. Dico al mio comandante che voglio andare lì, “anche io!” mi risponde ridendo. Tornerà dopo qualche ora con la faccia delusa, dice che la zona è sotto un altro comando e che non c’è niente da fare. Dovrà restare in paese, ad organizzare il resto degli uomini, mentre io ed un altro compagno andremo in ricognizione.
Scaliamo una delle due montagne che sovrastano Badina, siamo in territorio nemico e occorre cautela. Una fitta nebbia ci avvolge completamente, non so dire se sia un bene o un male, non vediamo assolutamente niente. Per nostra fortuna non sembrano esserci tracce di soldati nella zona, così decidiamo di rischiare e raggiungere la vetta più avanzata. Troviamo un punto che perfetto è dire poco: la città è duecento metri sotto di noi, ci sono grossi massi a coprirci, ed una grotta scavata nella roccia ci offre un riparo naturale dallo sguardo dei droni.
In Badina, intanto, si continua a combattere. Non passa un’ora senza un qualche scontro a fuoco, e l’intensità aumenta di volta in volta. La mattina un paio di caccia gli scaricano addosso una decina di airstrike, il giorno l’artiglieria pesante butta giù qualche casa, la notte notte l’elicottero l’ investe di colpi, e via dicendo…
Io e il mio compagno siamo increduli: come fanno a sopravvivere a tanta potenza di fuoco? Ogni volta ci guardiamo del tipo “dai, a ‘sto giro non c’è verso, sono morti per forza”, eppure, dopo qualche minuto, il fuoco di risposta dei compagni ritorna sempre a farsi sentire. Che incredibile resistenza! Vanno avanti così per due settimane, senza tregua.
Saliamo e scendiamo dalla montagna quasi ogni giorno, a volte per le provviste, a volte perchè chi ci viene affiancato non conosce la strada. Una squadra di solito è composta da cinque-sei persone, ma in quel momento eravamo solo in tre. Stavo riposando nella piccola grotta quando delle grida interrompono il mio sonno “Allah akbar, Allah akbar!”. Dopo venti giorni di bombardamenti i Jihadisti dell’Fsa (Free Syrian Army, ndr) stanno entrando in città. Sparano in aria, alcuni proiettili ci passano vicino. Si trovano perlopiù al centro della città, ma gli basterebbe avanzare un centinaio di metri verso delle case più in basso per tagliarci completamente la strada. Per me ed il mio compagno internazionale dovremmo restare, aspettare che escano allo scoperto, e sparare, ma il caposquadra che è con noi la pensa diversamente, è molto giovane, e non se la sente di rischiare. Provo a discuterci ma è tutto inutile, così, a malincuore, decidiamo di andarcene finche la strada è ancora aperta. Probabilmente se avessimo sparato saremmo morti, ma il rimorso per non averlo fatto ci tormenterà per diversi giorni. Di certo non tormenterà il giovane caposquadra: morirà quella sera stessa con la bomba di un drone. La morte ha uno strano senso dell’ironia. Insieme a lui morirà un altro nostro compagno, di loro neanche i pezzi troveranno, i loro corpi spariranno in mille frantumi. Con i droni non lo sai mai: sei sotto a qualche ulivo spelacchiato, con il fiato in gola, cercando di non fare il minimo movimmento, ti chiedi solo “mi avrà visto o no?”. Resti lì, immobile, ed ogni missile che ti tirano accanto ti dici “ok, questo è per me”. Cos’altro puoi fare?
Torniamo al villaggio. Uno dei Jihadisti in Badina ha trovato il cellulare di un nostro compagno morto ed ha chiamato il mio comandante per farsene beffa. Lui gli risponde che con gli aerei ed i droni della Turchia “so’ boni tutti” e che combattessero da uomini se lo sono. Ha ragione da vendere, i jhiadisti dell’Fsa non brillano nè per coraggio nè per intelligenza e senza i mezzi Turchi non avrebbero la minima speranza contro di noi.
Molti dei nostri sono morti in Badina, gente straordinaria, come Şahin, il compagno Islandese: ecologista, era noto per essersi arrampicato sul parlamento ed aver sostituito la bandiera della sua nazione con una di un noto low cost discount (come a dire che era tutto in svendita). Sognava di combattere le grandi industrie dell’alluminio, materiale incredibilmente dannoso per l’ambiente. Ci vorrebbe più gente come lui a questo mondo, e chi lo ha conosciuto sa che si tratta di una grande perdita. Tuttavia morire combattendo resta una gran bella morte e sono in qualche modo contento per lui.
Siamo stanchi, sporchi, e la squadra che deve darci il cambio tarda ad arrivare. In guerra c’è sempre grande confusione, è normale, ma il nostro comandante ritiene più opportuno tenerci a difesa della città, così, appena l’altra squadra arriva, torniamo ad Afrin. Come arriviamo i primi colpi di mortaio iniziano a piombare sui tetti delle case. Gli aerei volano basso perchè il loro rombo terrorizzi la popolazione. Ci riescono bene. La città è quasi circondata, mancano due km a chiuderla del tutto. “Se lo Ypg si ritira ci ritiriamo, altrimenti restiamo qua, se qualcuno se ne deve andare lo faccia ora”, alcuni se ne vanno, non li biasimo. Gli dico che resto, ma con la morte nel cuore, oramai c’è ben poco da fare, e quella di restare uccisi a questo punto sembra quasi una certezza. Non è nello stile dello Ypg ritirarsi, mi preparo al peggio. Quando il giorno dopo arriva la notizia che ce ne andiamo sono sinceramente sollevato. Si dev’essere raggiunto un accordo per tenere l’unica strada aperta ed evaquare i civili verso il confine Siriano. Sono felice che al comando generale abbiano scelto di non sacrificare altri uomini, con la città svuotata di civili sappiamo benissimo come sarebbe andata: non avremmo sparato un colpo, si sarebbero limitati a radere al suolo la città. Non c’è disonore, solo rammarico, disappunto, rabbia. Vedere una regione così bella consegnata in mano a queste bestie! Ed è l’immobilità del mondo di fronte a tutto questo il vero scandalo. Che una nazione membro della Nato come la Turchia abbia armato e supportato bande di jhiadisti nell’indifferenza più totale dovrebbe farci riflettere.
Al prossimo Bataclan, alla prossima Rambla, al prossimo metrò che salta, io, non verserò una lacrima.”