Il generale Cellerino, le schedature Fiat e le ombre del fascismo sull'Italia repubblicana.
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Il generale Cellerino, le schedature Fiat e le ombre del fascismo sull'Italia repubblicana.

C'è stato un tempo in cui i lavoratori della più grande fabbrica automobilistica venivano sistematicamente schedati, la loro vita privata passata al vaglio in ogni suo ambito

Sciopero alla Fiat
Sciopero alla Fiat
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

25 Giugno 2018 - 15.51


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C’è stato un tempo in cui, in questo Paese, i lavoratori della più grande fabbrica automobilistica nazionale venivano sistematicamente schedati, la loro vita privata passata al vaglio in ogni suo ambito. Non stiamo parlando del ventennio fascista, ma dell’Italia repubblicana. Sin dagli anni Sessanta del secolo scorso, con l’inasprirsi delle lotte sindacali, nella Fiat esisteva infatti un organismo apposito, l’Ufficio Servizi generali. Dietro questo nome artatamente generico si celavano i servizi di sicurezza interni alla Fiat, una potente struttura investigativa preposta alla raccolta sistematica di notizie inerenti la sfera intima dei dipendenti: idee politiche, orientamenti sessuali, coinvolgimenti ideologici. Un sistema di raccolta di informazioni degno di uno stato totalitario, che costituiva una formidabile arma di ricatto e che veniva impiegato per licenziare gli operai più impegnati nelle lotte sindacali e per la dignità dei lavoratori. Insomma, un colosso industriale che – caso unico in Europa per fabbriche di quelle dimensioni – non offriva neanche la mensa ai suoi dipendenti (in gran parte emigranti del meridione che vivevano in condizioni al limite della sopravvivenza nelle periferie torinesi), ma che investiva milioni per dotarsi di una struttura investigativa e spionistica da fare invidia a quella di uno stato nazionale, e che operava illegalmente con le preture e gli organi di polizia del capoluogo torinese, in barba alle più elementari norme di civiltà democratica.
A capo di quella struttura c’era un personaggio singolare: Mario Cellerino. Nativo di Alessandria, Cellerino aveva tutte le carte in regole per un simile incarico: generale dell’Aeronautica, dopo l’8 settembre era stato nominato addetto militare all’Ambasciata italiana a Berlino, quindi fu arrestato e rinchiuso nel campo di concentramento di Buchenwald. Tipico esempio di inquietante continuità tra il regime fascista e le nuove istituzioni repubblicane, dopo la guerra Cellerino fu nominato capo del nucleo Sios-Aeronautica di Torino, cioè del servizio segreto. Tenne l’incarico per 18 anni, poi nel 1965 si dimise per divenire braccio destro di Vittorio Valletta, il potente Presidente che di fatto governò per lunghi anni la Fiat, mentre l’eterno rampollo Gianni Agnelli si dava alla bella vita, inalando polverine, sfasciando macchine sportive e inanellando conquiste erotiche. Valletta non era nuovo a questo modo di procedere. Nei primi anni ’40, a guerra scoppiata, lui e gli Agnelli avevano assoldato un agente del Sim (il servizio segreto militare dello stato fascista), il maggiore dei carabinieri Roberto Navale. Personaggio quanto mai torbido (venne processato più volte per l’accusa di assassinio di Carlo e Nello Rosselli, e oscuramente assolto per insufficienza di prove), nel 1941 Navale fu assunto alla Fiat come capo della sorveglianza degli stabilimenti del gruppo, e in quel ruolo denunciò decine di operai che osavano criticare il regime. Navale morì a Torino nel 1965, con tanto di onori militari al suo funerale, proprio l’anno in cui, in un’ideale staffetta, Cellerino si mise al servizio della Fiat.
Fu una clamorosa inchiesta dell’allora giovane magistrato Raffaele Guariniello, nel 1971, a far emergere il vero ruolo rivestito dell’ex generale all’interno della Fiat. L’inchiesta prese le mosse da una causa di lavoro intentata contro la casa torinese da un ex dipendente, Caterino Ceresa, che dopo il licenziamento aveva rivelato di avere svolto indagini illecite sul personale e su canditati all’assunzione, o comunque su persone che in qualche modo avevano relazioni con le fabbriche della famiglia Agnelli. Guariniello fece perquisire gli uffici del quartier generale di Corso Marconi e di via Giacosa, e così venne alla luce un gigantesco apparato illegale di controllo e schedatura di dipendenti della Fiat, sindacalisti, militanti di sinistra, giornalisti, professori e financo uomini politici: si contarono 354.077 “schede informative”. Vi erano poi le prove dei compensi che la Fiat versava alle forze dell’ordine e agli agenti del Sid che da anni collaboravano strettamente con l’azienda per quel lavoro di intelligence. Nomi e cognomi illustri comparvero sui verbali: il questore di Torino, Marcello Guida (e due suoi predecessori, De Nardis e Perris), il suo capo gabinetto, il comandante del nucleo investigativo dell’Arma, oltre a circa 150 tra agenti di pubblica sicurezza e carabinieri. Insomma, un mostruoso intreccio tra apparati dello Stato e centri di potere privati, dalle caratteristiche inquietantemente simili a quelle riscontrate nello “scandalo Telecom” di questi nostri anni.
La vicenda giudiziaria che seguì è esemplare di come viene amministrata la giustizia in questo Paese. La condanna in primo grado per Cellerino giunse nel 1978, dal Tribunale di Napoli, dove il dibattimento era stato spostato per “legittima suspicione”: due anni e nove mesi di reclusione. Poi, l’11 luglio 1979, la sentenza definitiva: tutti assolti, lui e gli oltre 30 imputati, tra i massimi dirigenti della Fiat, per intervenuta prescrizione. D’altra parte, si poteva mai condannare un simile potere, così costituzionalmente annidato nello Stato italiano?
Il generale Mario Cellerino è scomparso in questi giorni a Viareggio, dove si era ritirato da tempo. Si è spento a quasi cento anni, certamente pago, sicuro di aver fatto sempre e fino in fondo il suo dovere. È su siffatti incolori personaggi che il potere edifica la sua forza. E la storia ha il passo lungo.

Giuseppe Costigliola

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