Altro che stabilizzazione. Altro che “cavallo vincente”. Il premier libico Fayez al-Sarraj, a capo del governo di Tripoli riconosciuto dalla comunità internazionale, sarebbe intenzionato ad annunciare nei prossimi giorni le dimissioni, restando comunque in carica per la conclusione dei negoziati previsti per ottobre a Ginevra per la formazione di un nuovo governo. E’ quanto rivela Bloomberg, che cita fonti informate. E che da premier Sarraj abbia ormai i giorni contati, lo confermano a Globalist fonti diplomatiche italiane: “Di certo Sarraj non se la sta passando bene e la sua uscita di scena più che un rischio è una quasi certezza”, dice a Globalist un diplomatico di lungo corso, profondo conoscitore della realtà libica in tutte le sue molteplici e conflittuali sfaccettature.
Secondo le rivelazioni di quattro responsabili libici, Sarraj e i suoi collaboratori hanno discusso delle intenzioni del premier con gli alleati libici e internazionali. L’annuncio, affermano due fonti, potrebbe arrivare entro la fine della settimana. Nelle ultime settimane il governo di Tripoli ha fatto i conti con crescenti pressioni a causa delle proteste registrate nella capitale. Con le dimissioni, sostengono le fonti di Bloomberg, Sarraj riuscirebbe ad alleggerire le pressioni e a preparare la sua uscita di scena dopo i colloqui di Ginevra.
Le autorità di Tripoli e quelle dell’est della Libia dovrebbero arrivare a un accordo su una nuova forma di Consiglio presidenziale che riunisca le amministrazioni ‘rivali’ e convochi le elezioni. E quest’ultima mossa dovrebbe essere accolta con favore dagli alleati del generale Khalifa Haftar nella regione.
Haftar, secondo diplomatici occidentali e arabi, sta intanto dando sempre più spazio politico ad Aguila Saleh, il capo del Parlamento di Tobruk, che ha proposto un’iniziativa politica per unificare le istituzioni del Paese.
Dimissioni a catena
Domenica sera, dopo giorni di proteste di piazza e anche di attacchi a sedi istituzionali, si è dimesso il governo “parallelo” dell’Est presieduto da Abdullah al Thinni. Sul sito del Parlamento della Cirenaica viene confermato che il governo Al Thinni, non riconosciuto dalla comunità internazionale, “ha presentato le proprie dimissioni al presidente della Camera dei Rappresentanti, Agila Saleh, dopo le proteste popolari dei giorni scorsi per chiedere migliori condizioni di vita e la fine della corruzione. Le dimissioni “saranno presentate al Parlamento per il voto”. Le dimissioni sono state presentate durante una riunione di emergenza, convocata domenica da Saleh per discutere delle cause del deterioramento dei servizi pubblici e delle condizioni di vita dei cittadini, in primis la mancanza di elettricità e la situazione sanitaria dovuta al coronavirus. Il tutto mentre ormai da settimane, dopo la sconfitta militare che lo ha costretto a rinunciare all’assedio di Tripoli, il generale Khalifa Haftar rimane in disparte, silenzioso: molti segnali indicano che il generale non ha rinunciato all’idea di riprendere le operazioni militari, ma per il momento si tiene lontano dalla gestione degli affari civili in Cirenaica.
Per evitare il caos totale, è in corso una mediazione guidata da personalità politiche e sociali libiche della Cirenaica per assegnare a Ibrahim Buchnaf, ministro dell’Interno del governo non riconosciuto dell’est della Libia, l’incarico di primo ministro dell’esecutivo sostenuto dal parlamento di Tobruk. . Una fonte vicina alla presidenza della Camera dei rappresentanti di Tobruk ha riferito ad Agenzia Nova che fino ad ora Buchnaf non ha ancora formalmente ricevuto un nuovo incarico. Il presidente del Parlamento, Aguila Saleh, sta ancora conducendo diverse consultazioni con alcuni ministri del governo Al Thinni e un certo numero di leader politici e sociali su questo tema. Il ministro dell’Interno di Bengasi è considerato uno dei ministri più potente del governo di Thinni nella Libia orientale e uno dei più vicini al generale Khalifa Haftar. Proviene dalla tribù Awlad Sheikh, che ha una relazione sociale con la tribù degli Al Furjan a cui appartiene Haftar, poiché le due tribù sono considerate discendenti degli Almoravidi.
La “rivoluzione dei poveri
“Di recente in Libia, a sei anni dall’ultima vera manifestazione a Tripoli, la popolazione ha infranto il muro della paura per protestare contro un peggioramento delle condizioni di vita, e la risposta delle autorità è stata orribile – annota su Internazionale Khalifa Abo Khraisse, regista libico da sempre impegnato nella difesa dei diritti umani -. Il presidente del consiglio presidenziale e primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) Fayez al Sarraj è apparso in televisione rivolgendosi alla popolazione con un discorso che per la sua debolezza e confusione ha deluso tutti quanti. Le sue parole non sono state all’altezza di un primo ministro, sembravano più quelle di uno youtuber. Al Sarraj ha respinto le responsabilità e ha parlato di soluzioni teoriche senza fornire indicazioni pratiche. Non ha dimenticato di accennare in modo subdolo al diritto legittimo che le autorità hanno di perseguire i manifestanti.”
D’altro canto, rimarca ancora Abo Khraisse, “In Libia tutti lavorano con le milizie ritenendole ormai un dato di fatto. Le proteste che le autorità di Tripoli sono riuscite a reprimere nella capitale ne hanno ispirate altre simili in luoghi diversi. In città I controllate dal generale Haftar nella regione orientale della Libia ce ne sono state diverse contro la corruzione e il peggioramento delle condizioni di vita, e lo stesso sta accadendo nel sud del paese. La chiamano la ‘rivoluzione dei poveri’”..
In gran parte del Paese montano le proteste. A Sirte, Ghat, Sabha e ad altri centri, il 20 agosto, data in cui si commemora la battaglia di Tripoli del 2011, i giovani hanno imbracciato di nuovo le bandiere verdi di Muammar Gheddafi esprimendo il loro bisogno di cambiamento e il loro sostegno al figlio del Colonnello, Saif al-Islam Gheddafi. A Sirte le dimostrazioni sono continuate anche nei giorni successivi. I giovani di Zawyia sono usciti in strada venerdì sera contro il ministro dell’Interno Fathi Bashagha e la presenza di mercenari siriani. A Sabha è partita la “rivoluzione dei poveri”, in centinaia si sono riversati nelle piazze sollevando la bandiera della patria e domandare i propri diritti più basilari.
Di fronte al malcontento popolare, Tripoli ha risposto con durezza: le milizie fedeli ad al-Sarraj non hanno esitato a sparare lacrimogeni e proiettili veri dimostrando per l’ennesima volta come non siano meno brutali dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) fedele ad Haftar.
Fonti di sicurezza libica hanno rivelato che il premier ha cercato l’aiuto dell’intelligence turca di stanza a Tripoli per far infiltrare nel movimento popolare individui a lui fedeli che avrebbero sollevato richieste in linea con gli interessi turchi e cambiato il corso delle richieste politiche e sociali. Secondo il quotidiano The Arab Weekly, le direttive turche alle milizie libiche avrebbero incluso il cambiare gli slogan contro Sarraj, i mercenari siriani e il deterioramento delle condizioni di vita in quelli a favore dell’immediata riapertura dei terminal petroliferi e del ritorno alla normalità.
Le tribù e la frammentazione etnica nel paese nord-africano
In Libia – sottolinea Francesco Bussoletti in un documentato report per Sicurezza&Difesa – non si governa senza l’appoggio di tutta una serie di tribù e che vi siano accordi di convivenza e pacificazione con e tra i gruppi tribali. Le tribù maggiormente coinvolte nell’intricato scenario sono: 1) I Warfalla considerati la più numerosa tribù della Libia – un milione di persone su una popolazione complessiva di sei – originaria di Misurata ed i suoi clan sono disseminati soprattutto nell’est del Paese, dove hanno stretto un’alleanza con Haftar, per il controllo della parte orientale della Libia. Sono divisi in sei sottoclan, che talvolta hanno dissidi tra loro; 2) Magarha, la seconda tribù più numerosa del Paese, originaria del sud ma nel tempo spostatasi sulla costa. Il leader Abdel Salam Jalloud – negli anni ’90 – era considerato il secondo uomo più importante del Paese dopo Gheddafi; 3) Qadhadhfa, la tribù da cui proveniva Gheddafi, una delle più esigue del Paese. La loro roccaforte è la città natale del leader, Sirte, che negli anni scorsi fu presa di mira dall’Isis e ora dal generale Haftar; 4) Gli Zuwayyah, tribù che abita le aree rurali nell’est del Paese, in Cirenaica e il suo ruolo è cresciuto nel 2011 per la sua dislocazione nelle aree petrolifere libiche che ha loro permesso di usare il petrolio come leva politica.
Il gruppo tribale non è molto numeroso ma ben armato ed attualmente è alleato con i Ferjan, la tribù di provenienza del generale Haftar.
Altri gruppi tribali storicamente importanti sono Zintan, al Rijban e Awlad Busayf in Tripolitania; Awagir, al Barasa, Drasa, Obeid e Fwakhir al Abaydat in Cirenaica. Infine gli Hassawna e gli Hutman nel Fezzan.
Alla diaspora tribale – annota ancora Bussoletti – occorre sommare anche la frammentazione etnica del popolo libico diviso su basi esclusivamente etniche: alla maggioranza degli Arabi si aggiungono i Berberi, i Tuareg, i Tebu ed i Tawargha, un gruppo etnico di circa 30 mila persone, vittime di crimini di guerra e di pulizia etnica, soprattutto da parte delle milizie di Misurata”.
Ali Abu Sbeha, rappresentante delle tribù del Fezzan, storica regione meridionale della Libia, ha dichiarato che “Si stanno svolgendo incontri nelle capitali del mondo alle spalle del popolo povero libico. Non sappiamo nemmeno chi sono queste personalità che si sono incontrate, quali siano i loro ruoli e da chi siano stati investiti”. Secondo l’anziano sceicco, “l’obiettivo di queste raccomandazioni è quello di riciclare i rifiuti corrotti che si aggrappano per non perdere il potere. Gli stessi che sono stati la causa della distruzione del paese, umiliando il cittadino e saccheggiando le sue ricchezze”. Rivolgendosi al popolo libico il leader tribale ha affermato: “Alziamo la nostra voce con forza di fronte a queste tenebre, contro coloro che li sostengono con quella che è conosciuta come la comunità internazionale che pratica l’ingiustizia contro di noi palesemente. Rifiutiamo fortemente questi corpi logori e personalità corrotte. Respingiamo ogni iniziativa del Centro di dialogo umanitario di Ginevra, perché è stato dimostrato senza dubbio che rappresenti uno degli strumenti che cercano di prolungare la durata del problema libico”.
E in Libia, i capi tribù contano molto di più dei “signor nessuno” come è rimasto, nonostante l’investitura internazionale, Fayez al-Sarraj.