Non era un frequentatore di moschee. Non si era formato in una madrasa pachistana né affinato dopi militari sul fronte siriano o su quello afghano. Mentre gli inquirenti francesi sono al lavoro per ricostruire il profilo e la rete dei contatti di Brahim Aouissaoui, che era completamente sconosciuto fino al giorno dell’attacco dai servizi di intelligence, dalla cittadina di Tina, dove viveva il terrorista nel governatorato di Sfax cominciano a filtrare alcune informazioni.
Alcune fonti raggiunte al telefono da Salah Methnani per Rainews descrivono un profilo che assomiglia a tanti altri giovani tunisini, passati all’azione all’improvviso senza destare sospetti.
“Giovani che sono stati indottrinati e hanno adottato in breve tempo la sanguinaria ideologia dell’Isis. Brahim Al-Issaoui – scrive Methnani – era diventato, stando a quanto ci è stato raccontato da chi lo aveva conosciuto prima di imbarcarsi verso le coste siciliane e arrivare poi in Francia, un musulmano praticante quando aveva 19 anni. Una trasformazione graduale nel suo comportamento che lo avrebbe portato in un primo momento ad allontanarsi dall’alcol e da tutti i peccati e ad osservare rigorosamente le 5 preghiere quotidiane in una moschea del quartiere. Una trasformazione che non era sufficiente per le autorità tunisine per schedarlo come potenziale terrorista. Aveva lavorato per due anni come meccanico e con i soldi guadagnati si era messo in proprio a vendere benzina di contrabbando. Del percorso seguito fino al giorno dell’attacco si sa per ora che si trovava a Bari il 9 ottobre, prima di dileguarsi nel nulla. Gli inquirenti francesi avrebbero ritrovato 2 cellulari che appartenevano al terrorista che potrebbero aiutare a ricostruire il momento esatto del suo arrivo in Francia e le persone con cui era entrato in contatti. Stando alle ultime notizie un 47 enne, è stato fermato nella notte ed è stato iscritto nel registro degli indagati. Avrebbe avuto legami con il terrorista la vigilia dell’attacco. Intanto un sedicente gruppo terroristico di “Ansar Al Mahdi in Tunisia e nel Meghreb”, di cui nessuno aveva mai sentito parlare in passato ha rivendicato con un video l’attacco di Nizza.
Un elemento centrale sul quale si stanno concentrando gli investigatori è se il tunisino aveva in mente di compiere un attentato fin dallo sbarco in Europa oppure no: l’utilizzo di un normale coltello dà l’impressione di un’azione improvvisata, chissà se provocata dalle polemiche tra Francia e Turchia sulle vignette raffiguranti Maometto e il presidente Racep Tayyip Erdoğan. Solo ipotesi che potranno essere confermate o smentite dall’analisi del suo telefonino: se è vero che lo usava spesso, in Italia e in Francia, sarà facile capire se aveva contatti solo con la sua famiglia oppure anche con altre persone che potrebbero averlo aiutato. Certo è che lo scontro politico-religioso che sta infiammando molte parti del Medio Oriente e dell’Asia vede uniti sciiti e sunniti che, pur con linguaggi diversi, accantonano il reciproco odio viscerale per unirsi contro la Francia.
I “terroristi fai da te”.
Il 26 settembre 2020 un ragazzo di origine pachistana armato di mannaia ha ferito dei passanti nei pressi della vecchia redazione di Charlie Hebdo a Parigi, con l’obiettivo di vendicare la ripubblicazione delle vignette rappresentanti il profeta Maometto in modo satirico. Il 16 ottobre Abdoullakh Abouyedovich Anzorov, un ragazzo di origine cecena residente in Francia da più di dieci anni, ha decapitato Samuel Paty, professore di educazione civica a Conflans-Sainte-Honorine, nella periferia di Parigi. Paty, durante una lezione sulla libertà d’espressione, aveva mostrato ai suoi studenti le vignette satiriche della rivista Charlie Hebdo in cui il profeta Maometto veniva ritratto nudo, indignando alcune frange della comunità musulmana francese e causando un certo fermento sui social network, anche da parte, ad esempio, di Abdelhakim Sefrioui, islamista noto alle forze dell’ordine francese per l’avanzamento di ideali radicali, che avrebbe descritto Paty come un “delinquente”. È proprio attraverso le reti social che Anzorov è venuto a sapere di quanto accaduto durante le lezioni di Paty, agendo poi individualmente.
L’incubo Isis
Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa.
Dopo gli attentati del 2015 (in particolare la strage al Museo del Bardo, uno dei luoghi simboli di Tunisi, 24 le vittime tra cui 4 turisti italiani) le autorità tunisine si sono impegnate nel rafforzamento delle misure di sicurezza, in particolare dei siti sensibili (alberghi, attrazioni turistiche, porti, aeroporti e grandi arterie di comunicazione) e in una capillare lotta al terrorismo. Alcune aree del Paese sono ancora fortemente sconsigliate. Tra queste, appunto, i territori al confine con la Libia. In Tunisia è in vigore lo stato d’emergenza dal 24 novembre 2015, quando il sedicente Stato islamico (Isis) attaccò un bus della guardia presidenziale con un bilancio di 12 agenti uccisi. Nel Paese sono attive in particolare due formazioni: il gruppo Ansar al Sharia, che ha ramificazioni in Libia, e quello Jund al Khilafa.
Di estremo interesse è lo studio pubblicato dal Centro Tunisino per la Ricerca e lo Studio sul Terrorismo (Ctret) sui gruppi jihadisti attivi in Tunisia. Lo studio è stato condotto su un pool di 1.000 tunisini arrestati e incarcerati tra il 2011 e il 2018. Dalle verifiche è emerso che il 40% di questi elementi erano giovani laureati o diplomati, il 3,5% era rappresentato da donne, mentre 751 erano giovani sotto i 35 anni.
Il Ctret ha analizzato anche come i gruppi jihadisti reclutano nuovi adepti. Il sistema più utilizzato è quello dell’indottrinamento individuale, effettuato tramite imam e predicatori, dentro e fuori le moschee, in particolare quelle gestite da salafiti, che si rivelano come il luogo privilegiato di trasmissione e propagazione di una versione fondamentalista e jihadista della religione musulmana. Seguono i social media e i media tradizionali. Lo studio indica anche che il 69% dei jihadisti tunisini monitorati era stato addestrato in Libia e il 21% in Siria, grazie alla facilità di poter viaggiare senza problemi da Tunisi in Turchia e da lì, poi, entrare in Siria. L’immagine della Tunisia che emerge dalla ricerca del Ctret è preoccupante, visto soprattutto l’alto potere attrattivo che l’ideologia jihadista ha mostrato di sapere esercitare sui giovani under 35, ovvero i nati durante il boom economico e demografico esploso in tutto il Maghreb negli anni Ottanta e Novanta. Una fase che, non a caso, molti analisti paragonarono all’epoca a una vera “bomba ad orologeria” che negli anni a seguire sarebbe scoppiata nelle mani dei governi tunisini se non fosse stata gestita adeguatamente per tempo.
Ritratto del terrorista fai da te
Non hanno mai frequentato una moschea. Non seguono i dettami del Corano. Sono “i nuovi nichilisti del jihad”. Hanno la rabbia dentro e cercano solo un obiettivo contro cui sfogarla. E una ideologia che la “nobiliti”. Sono gli hooligans del Daesh. Il terrorismo fai da te. Non solo nel fabbricarsi armi artigianali, ma nel decidere dove, chi e quando colpire. Come diventano gli “hooligans della jihad” lo spiega molto bene il più autorevole studioso francese dell’Islam radicale, Oliver Roy: “Prima si radicalizzano e solo in un secondo tempo scelgono l’Islam nella sua versione più estrema. Ma tutto questo non c’entra più con la disperazione delle banlieue. Gli autori dell’attacco contro Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015 e di quello a Parigi il 13 novembre avevano poco a che vedere con il mondo delle banlieue. Sono invece affascinati dalla violenza, vista in mille forme su internet. A Marsiglia le banlieue imperano, ma ci sono gruppi criminali che danno armi e sensazioni forti ai giovani. Di conseguenza, qui i jihadisti si contano sulle dita di una mano. A Nizza invece la comunità araba è più ricca e integrata, eppure i jihadisti arrivano più facilmente dai ranghi della sua classe media”. Roy, in un altro suo scritto, spiega perché la “bandiera” con cui si coprono è quella dell’Isis. “È l’ideologia che in questo momento domina il mercato della violenza terrorista. La sinistra, anche quella estrema, non li interessa: non è abbastanza radicale, non ha una dimensione globale e non coinvolge affatto questi giovani. Sono degli sradicati, non si riconoscono nei movimenti di protesta tradizionali europei, non condividono le battaglie per i diritti civili, per esempio per i matrimoni gay. Sono ribelli senza una causa, arrabbiati sicuramente, ma alla ricerca di un obiettivo per cui combattere. La collaborazione tra questi giovani e l’Isis è semplicemente una questione di opportunità. Gli stessi giovani si erano legati ad al Qaeda e prima ancora al Gia algerino, o avevano seguito un nomadismo jihadista individuale tra Afghanistan, Bosnia e Cecenia. Domani combatteranno per un’altra bandiera, a meno che la morte in battaglia, la vecchiaia o la disillusione non svuotino i loro ranghi, un po’ come è accaduto all’estrema sinistra degli anni Settanta”. E’ un fenomeno generazionale. Sono molto giovani. Tra loro c’è di tutto. Anche ragazzini di 14 e 15, fino a dei trentenni. Vent’anni è la media. Dunque, non sono prodotti né dalle moschee né dagli ambienti musulmani. Rispecchiano un fenomeno di atomizzazione, individualismo. Si radicalizzano fra giovani nel virtuale”. Una riflessione che investe anche i foreign fighers: “Sono affascinati dalla morte – rimarca-ancora Roy- . La cercano, la predicano e coltivano intimamente, è parte della loro identità individuale e di piccolo gruppo che si considera eletto. Vogliono morire, per loro è un onore farlo combattendo, dà senso alle loro esistenze. In questo modo si differenziano dai gruppi terroristici classici, per i quali restare in vita è uno dei doveri fondamentali per poter garantire la continuità del proprio impegno nella lotta. In secondo luogo, non credono in un ideale utopico, non lavorano per una società migliore, non cercano di militare in partiti politici o associazioni. I nichilisti della Jihad annota ancora lo studioso francese- appartengono a due categorie. Giovani musulmani di seconda e terza generazione che vivono in Occidente, e i convertiti. Il numero dei convertiti è significativo perché rappresenta un quarto dei foreign fighters e degli autori di stragi e attentati in Francia e nel resto d’Europa. Non troviamo questa proporzione di convertiti in nessun’altra organizzazione musulmana. Ciò dimostra che non si radicalizzano nel quadro di una società tradizionale musulmana, ma attraverso Internet e fra di loro”.
E questo li rende ancora più pericolosi e imprevedibili.
“Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato” ma un salario per combattere la Jihad –dice a Globalist Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace -. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa, per l’Italia, non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro. Un futuro condiviso”.
Dietro la “rotta tunisina”, quella che ha portato a Lampedusa l’attentatore di Nizza, spiega Ben Moussa, “vi sono organizzazioni criminali che hanno stabilito un patto d’azione con gruppi jihadisti che, dopo essere stati scacciati dalla Siria e dall’Iraq, hanno fatto del Nord Africa la loro nuova trincea, soprattutto ai confini tra Tunisia e Libia. Il loro obiettivo non è la conquista del potere ma destabilizzare i Paesi in cui s’insediano, cercando di controllare territori utilizzati per sviluppare i loro traffici criminali. E lo fanno sfruttando un malessere sociale che la crisi pandemica ha ulteriormente alimentato. La risposta vincente non può essere solo repressiva né, come purtroppo è accaduto, utilizzare la guerra al terrorismo per sospendere libertà fondamentali, individuali e collettive. La Tunisia è nel mirino di questi criminali perché ciò che non tollerano è il consolidamento dello Stato di diritto, l’opposto della dittatura della sharia che vorrebbero instaurare”.
Ecco perché investire sulla giovane e ancor fragile democrazia tunisina è per l’Europa, e l’Italia, non un atto di generosità ma lo strumento più efficace, ancor più del pur necessario lavoro di intelligence, per evitare altri Brahim Aouissaoui, i “terroristi fai da te”.