Presidente Draghi, sappiamo che Lei è preso da mille impegni e che, ne siamo sicuri, purtroppo, nelle consultazioni che ha iniziato oggi per provare a dar vita ad un Governo salva-Italia, quel nome non le verrà fatto. Perché non è una casella ministeriale da riempire, perché i diritti umani, al di là delle parole di circostanza e di tante lacrime di coccodrillo versate dopo una tragedia e di solenni impegni mai mantenuti, quei diritti non sono tra le priorità di coloro che da oggi si accinge ad incontrare. E allora, Presidente Draghi, permetta a noi di Globalist di farLe quel nome.
Il nome di un giovane studente universitario che giace da mesi e mesi, in condizioni sempre più degradate, sotto “ergastolo amministrativo” in una fetida cella di un carcere di massima sicurezza egiziano. Quel giovane si chiama Patrick Zaki.
Cittadino italiano
Provi, se ne avrà tempo e voglia, di chiedere a qualcuno della Farnesina, le sconsigliamo per ragioni di linguaggio il ministro degli Esteri ancora in carica, il dossier su Zaki. E ancor meglio sarebbe se qualcuno dei suoi collaboratori chiedessero lumi alle organizzazioni per i diritti umani che dal primo giorno di questo sequestro, perché tale è, si sono battute per la liberà del giovane ricercatore.
Sul cosa fare, facciamo nostro il suggerimento che Carlo Verdelli le ha offerto dalle pagine del Corriere della Sera: “Ci vorrà molto coraggio per ridare speranza a un’Italia interrotta da una crisi disperante – è un passaggio del suo articolo -. La lista delle priorità è lunga, il contesto pericolosamente litigioso, il clima dentro e fuori il Paese non butta al bello, il tutto al netto del virus. Ma le grandi imprese cominciano anche da piccoli segni. Per esempio, dall’emergenza depennata, nell’infuriare della bufera, di uno studente «egiziano ma come se fosse italiano» abbandonato nelle spire di una bestia congegnata per soffocarlo. Sta esaurendo le forze, il «nostro» Zaki, si sta perdendo dentro l’incubo in cui l’hanno precipitato. Non rimane tanto tempo e non bastano più gli attestati di solidarietà a ciglio umido. Ci vorrebbe un moto di coraggio. Dargli la cittadinanza italiana, per esempio, che è cosa ben diversa dalla benemerenza civica regalatagli dalla sua Bologna. Vero che questa concessione richiede passaggi complessi, compreso un decreto del presidente della Repubblica, ma non ci sono ostacoli di forma: Patrick Zaki potrebbe diventare, giuridicamente, sia egiziano sia italiano. E in questo caso la pressione sul Cairo aumenterebbe di potenza, anche agli occhi degli alleati europei in questa battaglia di umanità. La nostra legge prevede che il riconoscimento della cittadinanza a uno straniero sia possibile ‘quando questi abbia reso eminenti servizi al Paese, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato». Siamo nel secondo caso. Il nostro Stato, oggi più che mai, ha bisogno di dare segnali forti di coraggio. Nel suo proprio interesse, e in quello degli ultimi della fila”
Odissea infinita
La Procura generale ha confermato la volontà di applicare la draconiana legge egiziana che consente fino a due anni di custodia cautelare: “I motivi della sua incarcerazione permangono sempre e le indagini proseguono ancora”. Tutto ciò malgrado, come ha ricordato la Farnesina, il caso giudiziario di Patrick sia “l’unico che viene costantemente monitorato da un gruppo di Paesi stranieri» (ieri, oltre a un diplomatico italiano, erano presenti rappresentanti di Danimarca e Usa).
Ancora negli ultimi giorni il ministero degli Esteri, attraverso l’ambasciata italiana al Cairo, ha continuato a sensibilizzare le autorità egiziane «al fine di favorire la pronta scarcerazione» dello studente 29enne. «Siamo in una situazione paradossale in cui giudici, procuratori e altri esponenti della magistratura egiziana comunicano l’esito” dell’udienza “a tutti meno che all’avvocata», ha denunciato all’Ansa Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Questa vicenda, se confermata, dimostrerebbe ancora una volta che in Egitto le procedure, i diritti, il rispetto per la dignità dei detenuti valgono meno di zero”, ha aggiunto. “Se per Patrick si apre il secondo anno di detenzione illegale, arbitraria, senza processo, crudele, allora dobbiamo davvero raddoppiare le forze e prepararci per una campagna ancora più massiccia”.
Lettera dal carcere
Presidente Draghi, per conoscere ancor meglio la condizione di Zaki, sarebbe cosa buona e saggia leggere la lettera che il giovane “sequestrato” ha scritto il 12 dicembre scorso.
“Ho ancora problemi alla schiena e ho bisogno di forti antidolorifici e di qualcosa per dormire meglio”, racconta dal carcere di Tora in un messaggio rivolto ai genitori. “Il mio stato mentale non è un granché dall’ultima udienza”, scrive lo studente, nella lettera che la famiglia ha ricevuto e gli attivisti hanno pubblicato sulla pagina Facebook “Patrick Libero” esprimendo la loro “grave preoccupazione per la salute mentale e fisica di Patrick”.
“Continuo a pensare all’Università, all’anno che ho perso senza che nessuno ne abbia capito la ragione. Voglio mandare il mio amore ai miei compagni di classe e agli amici a Bologna. Mi mancano molto la mia casa lì, le strade e l’università. Speravo di trascorrere le feste con la mia famiglia ma questo non accadrà per la seconda volta a causa della mia detenzione” continua nella lettera Zaki.
Quel carcere infernale
Se poi è interessato a saperne di più di dove sia recluso lo studente, ecco la descrizione che l’ottima collega Antonella Napoli ne fa in un documentato, angosciante articolo per Avvenire: “Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah al–Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid–19…”.
Ed ancora: “Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zanzare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire.
Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. «I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione ‘Scorpion’ – racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 – Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione’ conclude l’attivista.
Non sorprende che ai prigionieri della ‘Scorpion’ venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio”.
Desaparecidos
Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni). Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre 60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi.
Colpevole di ironia
Nell’Egitto del “faraone” al-Sisi si muore in una cella dove sei stato rinchiuso per avere girato un video ironico sul presidente-generale. Nello stato di polizia egiziano, l’ironia è una minaccia alla sicurezza nazionale, e chiunque si macchia di questo “delitto” va messo a tacere. Definitivamente. E’ la storia di Shady Habash.
“Con i compagni di cella hanno gridato tutta la notte per chiedere un medico ma nessuno è intervenuto. Shady Habash è morto a soli 22 anni, da 26 mesi attendeva il processo. Era a Tora, la stessa prigione dove è detenuto Patrick Zaki”. Così all’agenzia Dire Amr Abdelwahab, un amico di Zaki, il ricercatore egiziano arrestato l’8 febbraio scorso con l’accusa di sedizione tramite i social network e da allora in detenzione cautelare nel carcere di massima sicurezza del Cairo.
Habash era stato arrestato nel marzo 2018 con l’accusa di “diffusione di notizie false” e “appartenenza a un’organizzazione illegale”, secondo la procura, ma mai processato. Aveva realizzato il videoclip della canzone “Balaha” (dattero), di Rami Issam, un cantante rock che si era fatto un nome durante la rivolta popolare del gennaio-febbraio 2011 contro l’allora presidente Hosni Mubarak e fuggito in esilio in Svezia. Un tempo censurato in Egitto, il filmato è stato visto più di 5 milioni di volte su YouTube. Secondo la Rete araba per i diritti umani e l’informazione (Anhri) Habash è morto per “negligenza e mancanza di giustizia”. Il giovane regista non è mai stato processato. In una lettera pubblicata lo scorso ottobre dai suoi colleghi, Habash aveva scritto: “Ho bisogno del vostro sostegno per scampare alla morte. Negli ultimi due anni ho cercato di resistere essere la stessa persona che conoscete una volta uscito dal carcere, ma non posso più farlo”.
Ecco, Presidente Draghi. Crediamo che questi racconti siano sufficienti per supportare la richiesta di dare cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Nessuno di quelli che incontrerà in questi giorni per le consultazioni le avanzerà questa richiesta. Un consiglio ci permettiamo di darglielo anche noi di Globalist:: ascolti la sua coscienza. E’ sufficiente.