Libia, il ministro Di Maio e il "Governo delle mazzette" insediato a Tripoli

Il ministro degli Esteri è informato di ciò che realmente sta avvenendo in Libia? E sa chi è realmente colui che dovrebbe guidare questa “importante transizione istituzionale”?

Guerra civile in LIbia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

5 Marzo 2021 - 17.21


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Una confessione personale. Ascoltare Luigi Di Maio parlare di politica estera è uno spettacolo. Tragicomico. Lo ascolti e ti chiedi: ma ci fa o c’è per davvero? Quando poi si applica nella lettura delle note preparategli dagli sherpa della Farnesina, non puoi fare a meno di pensare, ecco sta recitando un compitino. Una riprova la si è avuta oggi. L’occasione è l’incontro che il nostro ministro degli Esteri ha avuto alla Farnesina con il suo omologo francese Jean-Yves LeDrian. Nella conferenza stampa congiunta, al termine del vertice, si è parlato anche di Libia. Dossier caldissimo.

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Compitino

“La Libia è entrata in una fase cruciale del suo percorso verso la stabilità attraverso un importante transizione istituzionale, un risultato per il quale la comunità internazionale ha profuso grandi sforzi con la mediazione decisiva ed imprescindibile delle Nazioni Unite. Con il collega abbiamo condiviso gli obiettivi del nostro sostegno alla Libia. Un elemento centrale è stato il dossier libico su cui non solo ci siamo confrontati come ministeri, ma abbiamo promosso un proficuo confronto tra le nostre intelligence e i direttori delle nostre intelligence”, ha detto il ministro degli Esteri, durante il punto stampa con il ministro dell’Europa e degli Affari esteri della Repubblica francese, Jean-Yves Le Drian.

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E’ “molto importante che la Camera dei rappresentati si riunisca come previsto il prossimo 8 marzo per votare la fiducia al governo di unità nazionale” libico, ha rimarcato il titolare della Farnesina.

Di Maio ha insistito sulla “tenuta delle elezioni nella data decisa dai libici stessi”, il prossimo 24 dicembre, sulla “piena attuazione” dell’accordo per il cessate il fuoco del 23 ottobre scorso, “incluso il completo ritiro di combattenti e mercenari stranieri” e sull’ “avvio del processo di riconciliazione nazionale”, oltre che sulla necessità di attenuare la “grave crisi socio-economica che interessa il Paese”. “Il dossier migratorio rimane prioritario per l’Italia. Contiamo su una rafforzata collaborazione con le autorità libiche assicurare per un efficace controllo delle frontiere marittime per il contrasto ai trafficanti di esseri umani”, ha aggiunto Di Maio   

Sei meno meno, perché si vuole premiare la buona volontà dell’alunno. Ma poi, dopo questa botta di generosità, ecco di nuovo i cattivi pensieri: ma Di Maio è informato di ciò che realmente sta avvenendo in Libia? E sa chi è realmente colui che dovrebbe guidare questa “importante transizione istituzionale”?

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Domande d’obbligo, alla luce del rapporto di prossima pubblicazione da parte delle Nazioni Unite sul “Governo delle mazzette” insediato a Tripoli. 

Il “Governo delle mazzette”

Il processo inter-libico promosso dalle Nazioni Unite, che dovrebbe consentire la nomina di un governo di transizione, è stato segnato dalla corruzione. A denunciarlo è un rapporto dell’Onu stessa, in cui si evoca il pagamento di tangenti alla base dell’elezione del premier ad interim, Abdul Hamid Dbeibah, incaricato di portare il Paese alle elezioni di dicembre. Secondo il rapporto finale del Comitato di esperti delle Nazioni Unite sull’embargo e le sanzioni sulle armi per la Libia, due membri del Forum di Dialogo Politico “hanno offerto tangenti da 150 mila a 200 mila dollari ad almeno tre dei 75 partecipanti, in cambio del loro impegno a votare per Dbeibah come primo ministro”. Cifre che pare non siano neppure sembrate adeguate se uno dei partecipanti al Forum, svoltosi a Tunisi, “è esploso di rabbia nella hall di un hotel quando ha saputo che alcuni partecipanti avrebbero potuto ricevere fino a 500 mila dollari per il voto a favore di Dbeibah, quando lui aveva incassato solo 200 mila dollari”, si legge nel rapporto Onu, ancora riservato, ma di cui alcuni estratti sono trapelati sulla stampa internazionale. Il documento deve essere presentato formalmente al Consiglio di sicurezza entro il 15 marzo.

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A novembre erano state alcune organizzazioni libiche a chiedere un’indagine sulle “accuse di corruzione” volte, secondo loro, a influenzare il processo di selezione dei futuri funzionari. Su input dell’allora inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Stephanie Williams, era stato contattato il gruppo di esperti Onu per indagare. La denuncia contro Dbeibah, uomo vicino a Turchia e Russia e la cui famiglia aveva stretti legami con Muammar Gheddafi, ha messo a rischio il processo intrapreso dall’Onu e aperto un nuovo divario tra le diverse forze in conflitto nel Paese. Il premier incaricato si è difeso affermando che la selezione del nuovo esecutivo è avvenuta con “trasparenza e integrità”, denunciando i “tentativi mediatici di ostacolare la formazione del governo di unità nazionale”. Aqila Saleh, il presidente del Parlamento libico, ha annunciato di aver “chiesto il rinvio della sessione parlamentare prevista per l’8 marzo”, in cui è atteso il voto di fiducia al nuovo governo di transizione, “mentre si conducono le indagini sulle accuse di corruzione”. Una proposta che ha trovato l’opposizione della missione Onu in Libia (Unsmil), la quale in un comunicato ha esortato il Parlamento a non posticipare la data del voto di fiducia.

Terra di milizie e mercenari

Al capo della diplomazia italiana farebbe bene leggere l’ultimo rapporto sulla situazione in Libia pubblicato neanche due settimane fa da Amnesty International a 10 anni dal rovesciamento di Muammar Gheddafi

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“In Libia la giustizia per le vittime di crimini di guerra e di gravi violazioni dei diritti umani – come omicidi illegali, sparizioni forzate, torture, sfollamenti forzati e sequestri di persona commessi da milizie e gruppi armati – si fa ancora attendere”, rimarca AI. 

Secondo l’organizzazione per i diritti umani, le autorità libiche hanno promosso e legittimato capi delle milizie responsabili di feroci violazioni dei diritti umani invece di accertare le loro responsabilità e risarcire le vittime delle violazioni dei diritti umani commesse sotto il regime di Gheddafi e dopo la sua fine.

Le proteste iniziate nel febbraio 2011 vennero stroncate con violenza e degenerarono presto in un conflitto armato che, dopo una campagna aerea della Nato, portò alla caduta di Gheddafi. Da allora, la Libia è sprofondata in un circolo di assenza di legge e di crimini di guerra commessi da milizie e gruppi armati rivali. Vari governi libici hanno promesso di ripristinare lo stato di diritto e i diritti umani ma nessuno di questi è riuscito a riprendere il controllo della situazione.

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“Per dieci anni, l’accertamento delle responsabilità e la giustizia sono stati sacrificati in nome di una pace e di una stabilità mai raggiunte. Gli autori delle violazioni dei diritti umani hanno beneficiato dell’impunità, sono stati integrati nelle istituzioni statali e sono stati trattati con deferenza”, ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.

“Se i responsabili delle violazioni dei diritti umani non saranno portati di fronte alla giustizia e continueranno a essere premiati con posizioni di potere, la violenza, la situazione caotica, i sistematici abusi dei diritti umani e l’infinita sofferenza dei civili che hanno caratterizzato l’era post-Gheddafi proseguiranno incontrastate”, ha commentato Eltahawy.
Dal 2014 la Libia si è frammentata in due entità rivali in competizione per ottenere legittimità, governo e controllo del territorio. Lo scorso 6 febbraio i negoziati guidati dalle Nazioni Unite hanno portato all’annuncio di un nuovo governo di unità nazionale, col compito di organizzare le elezioni nazionali nel corso dell’anno.

“Chiediamo a tutte le parti in conflitto e al nuovo governo di unità nazionale di assicurare che alle persone sospettate di aver commesso crimini di diritto internazionale non siano affidati posti di potere dai quali potranno continuare a compiere violenze e a rafforzare l’impunità. Le persone accusate di crimini di guerra dovrebbero essere sospese da posizioni di autorità in attesa dell’esito di indagini indipendenti ed efficaci”, ha sottolineato Eltahawy.

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Promozioni di capi delle milizie responsabili di uccisioni illegali e torture
I governi succedutisi alla guida della Libia dopo la caduta di Gheddafi hanno integrato uomini delle milizie nei ministeri della Difesa e dell’Interno, hanno attribuito loro incarichi speciali che riportassero direttamente alla presidenza e li hanno ufficialmente inseriti a libro-paga.

Nel gennaio 2021 il Consiglio di presidenza del Governo di accordo nazionale di Tripoli ha nominato Abdel Ghani al-Kikli (noto come “Gheniwa”), capo della milizia “Forza di sicurezza centrale di Abu Salim”, a capo di un nuovo organismo chiamato “Autorità di sostegno alla stabilità”, che riporta direttamente alla presidenza.

“Gheniwa” è uno dei più potenti capi delle milizie tripoline costituitesi dopo il 2011 in uno dei più popolosi quartieri della capitale, Abu Salim.

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Nel suo nuovo incarico, “Gheniwa” e la sua agenzia avranno ampi per quanto vaghi poteri, compresi quelli dell’applicazione della legge, come ad esempio arrestare persone per motivi di “sicurezza nazionale”. Tutto questo nonostante negli ultimi 10 anni Amnesty International abbia documentato crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani ad opera di gruppi sottoposti al suo comando.

Nel 2013 e nel 2014 le ricerche di Amnesty International hanno scoperto che persone detenute dalle forze di sicurezza controllate da “Gheniwa” erano state sottoposte a sequestri e torture e altri maltrattamenti a volte con esiti mortali. La Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) è arrivata a simili conclusioni, comprese quelle relative alle morti in custodia sotto tortura, mentre il Panel di esperti sulla Libia ha denunciato attacchi contro i civili da parte delle forze di “Gheniwa”.
Il Governo di accordo nazionale aveva fornito già dal 2016 legittimazione e stipendi alle milizie di “Gheniwa”, integrando suoi uomini nel ministero dell’Interno e così favorendo ulteriormente omicidi illegali, sequestri di persona e torture, tra cui la violenza sessuale contro le detenute.

Ai sensi del diritto internazionale, un comandante militare può essere ritenuto responsabile dei crimini commessi dai suoi sottoposti se è a conoscenza di tali crimini, se avrebbe dovuto esserne a conoscenza, se non li ha impediti e se non li ha puniti.

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Impunità di massa
“Gheniwa” e le sue forze di Abu Salim non solo gli unici a essere stati ricompensati nonostante le gravi violazioni dei diritti umani a loro carico.

Nel gennaio 2021 Haitham al-Tajouri, capo della milizia “Brigata dei rivoluzionari di Tripoli” è stato nominato vice di “Gheniwa” nonostante fosse stato coinvolto in detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate e torture.

Sempre a Tripoli e sempre su decisione del Governo di accordo nazionale, le “Forze speciali di deterrenza” (note come “al-Radaa”), sotto il comando di Abdel Raouf Kara, sono state integrate nel ministero dell’Interno nel 2018 e trasferite sotto il Consiglio di presidenza nel settembre 2020. Amnesty International e altri organismi tra cui le Nazioni Unite, hanno documentato il coinvolgimento di “al-Radaa” in sequestri di persona, sparizioni forzate, torture, uccisioni illegali, lavoro forzato, attacchi alla libertà d’espressione e persecuzione ai danni di donne e di esponenti della comunità Lgbtq+.
Nel settembre 2020, il Governo di accordo nazionale ha anche promosso Emad al-Trabulsi, capo della milizia “Sicurezza pubblica”, a vicedirettore dell’intelligence nonostante il coinvolgimento di questa milizia in violazioni dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati, tra cui sparizioni forzate.

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Vari governi non hanno portato di fronte alla giustizia gli appartenenti alle milizie di Misurata responsabili di crimini di guerra tra cui attacchi contro la popolazione civile, come quello contro la città di Tawarga nel 2011 che causò lo sfollamento forzato di circa 40.000 persone. Le milizie di Misurata hanno sottoposto gli abitanti ad arresti arbitrari di massa, uccisioni illegali, torture con esiti a volte mortali e sparizioni forzate.

Le Forze armate arabe libiche, un gruppo armato che controlla buona parte della Libia centrale e orientale, non hanno arrestato il capo miliziano Mahmoud al-Werfalli, ricercato dal Tribunale penale internazionale per l’omicidio di 33 persone, promuovendolo invece a luogotenente della “Brigata Saiqa”. Varie altre persone contro le quali lo stesso Tribunale aveva spiccato un mandato di cattura per presunti crimini contro l’umanità o sottoposti a sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per il loro ruolo nel traffico di esseri umani, rimangono al riparo dalla giustizia e hanno persino preso parte al conflitto armato, dalla parte del Governo di accordo nazionale o delle Forze armate arabe libiche.

Queste ultime continuano a proteggere i capi della “Nona brigata” (nota come “Forze al-Kaniat”), coinvolta in omicidi di massa, nel disfacimento di cadaveri in fosse comuni, in torture e sequestri di persona nella città di Tarhuna.

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Contribuiscono ad evitare l’accertamento delle responsabilità anche ulteriori parti. L’Egitto, ad esempio, ha continuato a proteggere Khalid al-Tuhamy, capo della sicurezza ai tempi di Gheddafi e ricercato dal Tribunale penale internazionale, fino alla sua morte avvenuta nel febbraio 2012. Turchia, Russia, Emirati Arabi Uniti e lo stesso Egitto hanno violato l’embargo delle Nazioni Unite sulle armi alla Libia.

Nel giugno 2020, con l’assenso del Governo di accordo nazionale, il Consiglio Onu dei diritti umani ha approvato una risoluzione per l’istituzione di una Missione di accertamento dei fatti per indagare sulle violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto libico.

“L’accertamento delle responsabilità dev’essere una componente centrale del processo politico in Libia. Tutte le parti in conflitto devono rimuovere dalle loro fila tutte le persone ragionevolmente sospettate di crimini di guerra e di altre violazioni dei diritti umani e cooperare in pieno con la Missione Onu di accertamento dei fatti. La comunità internazionale deve assicurare che questa Missione abbia le risorse sufficienti, il sostegno amministrativo e il tempo necessario per terminare il suo lavoro”, ha concluso Eltahawy.

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L’impunità regna sovrana in Libia da 10 anni. 

Nel 2012 – ricorda ancora Amnesty International – una legge ha concesso piena immunità ai membri delle milizie per le azioni commesse al fine di “proteggere la Rivoluzione del 17 febbraio”. Il sistema giudiziario libico non funziona ed è inefficace: giudici e procuratori rischiano di essere sequestrati e assassinati per il mero fatto di svolgere il loro lavoro.

L’accertamento delle responsabilità rimane una chimera anche per i crimini commessi durante l’era di Gheddafi, come il massacro del 1996 nella prigione di Abu Salim. I tentativi di portare davanti alla giustizia i funzionari di Gheddafi sono stati caratterizzati da gravi violazioni dell’equità dei processi, da torture e sparizioni forzate.

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Questo è il quadro. E finiamo da dove avevamo iniziato: “Ministro Di Maio, ma Lei le sa queste cose?”.

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