Mike Pence. Di lui non si può certo dire che sia un liberal. E’ diventato il vice di Donald Trump alla Casa Bianca grazie al supporto della potente lobby evangelica, importante bacino elettorale per i Repubblicani e ala militante di quell’arcipelago fondamentalista cristiano che ha avuto un peso decisivo per l’elezione di The Donald nel 2016.
Ora, se anche uno come lui decide di prendere le distanze dal suo (ex) comandante, vuol dire che Trump ha superato la red line che separa il conservatorismo dal golpismo.
Presa di distanza
Il tycoon sbaglia a pensare che il suo vicepresidente avrebbe potuto rifiutare di convalidare la vittoria di Joe Biden e rovesciare così il risultato delle elezioni del novembre 2020. A dirlo è lo stesso Mike Pence, in uno degli attacchi più duri da lui mossi all’ex inquilino della Casa Bianca.
Dopo il voto di novembre Trump aveva chiesto a Mike Pence di non convalidare il risultato del voto nella seduta di convalida congressuale da lui presieduta il 6 gennaio 2021. Pence – che pure era stato sempre leale con Trump nel corso della sua tumultuosa presidenza – decise invece di non bloccare la certificazione.
Trump lo ha più volte attaccato per questo. Domenica scorsa è tornata a ripetere che Pence avrebbe potuto rovesciare il risultato. “Il presidente Trump sbaglia – ha detto Pence parlando alla Federalist Society, un’organizzazione giuridica conservatrice, a Lake Buena Vista, in Florida. “Io non aveva alcun diritto di rovesciare l’esito delle elezioni. La presidenza appartiene al popolo americano, e soltanto al popolo americano. E francamente non c’è un’idea meno americana di pensare che una sola persona possa scegliere il presidente americano”.Pence ha continuato nel suo discorso: “Capisco che molte persone possano essere scontente del risultato di quelle elezioni. C’ero anche io in corsa! Ma qualunque sia il futuro, io so che abbiamo fatto il nostro dovere quel giorno. John Quincy Adams ci ricorda: il Dovere è nostro, i risultati sono di Dio. E la verità è che c’è molto di più in gioco dei destini del nostro partito politico. Se perdiamo la fede nella nostra Costituzione, non perdiamo solo le elezioni, perderemo il nostro paese”.
Si tratta dei commenti più duri mai formulati da Pence all’indirizzo di Trump. Che più tardi ha reagito: “Avevo ragione e tutti lo sanno. Se ci sono irregolarità su vasta scala, è opportuno rimandare indietro quei voti per fare controlli accurati”.
Proprio mentre Pence presiedeva la seduta di certificazione del risultato elettorale, una folla inferocita dette l’assalto al Congresso. Pence ha definito nel suo discorso quel giorno come “oscuro”, una definizione che cozza con la valutazione data dal Partito repubblicano che ha parlato di “comuni cittadini impegnati in un legittimo dibattito politico”.
Ma il discorso di Pence così come la decisione di censurare, ma non espellere Cheney per aver accettato di far parte della Commissione d’inchiesta sul 6 gennaio è un segnale che nel Partito repubblicano comincia a scalfirsi il sostegno incondizionato per Trump. E’ incerto però che tutto questo basti a fermare l’ex presidente.
Dopo le critiche rivolte a Trump, Pence diventa sempre più un potenziale teste chiave dell’inchiesta sull’assalto al Congresso del 6 gennaio condotta dalla commissione della Camera. Già nelle scorse settimane, il democratico Bennie Thompson, che presiede la commissione, ha detto che riteneva che l’invio di una lettera di invito all’ex vice presidente era imminente. Ma la lettera per Pence non è ancora partita, a differenza di altre inviate a decine di altre potenziali testimoni a cui si chiede di collaborare volontariamente all’inchiesta, tra i quali anche Ivanka Trump. Questo perché non ci sarebbe unanimità tra i membri della commissione su questa mossa di grande rilevanza politica. Ma il discorso pronunciato da Pence è destinato a far aumentare le pressioni di chi vuole la testimonianza dell’ex vice presidente.
Un “pazzo” che indossa l’elmetto.
“Ci è voluta meno di una settimana perché la narrativa intorno alla campagna di Donald Trump mutasse da Trump il pazzo a Trump il fascista. “C’è un odore di fascismo precoce, o piuttosto dell’isteria che precede la marcia di allontanamento dalla democrazia, in molta di questa retorica trumpiana”, ha scritto Sasha Abramsky per The Nation, mentre Ryan Cooper di The Week ha catalogato “l’allarmante slittamento di Trump verso il fascismo vero e proprio”. Questo non è stato un fenomeno dei giornalisti liberali. Anche gli scrittori conservatori si sono trovati a cercare la parola.
Ma Trump è più pazzo che fascista. Il fascismo è un’ideologia. Trump è solo un id. Piuttosto che fingere che un imbonitore di carnevale sia un filosofo politico, sarebbe meglio rivolgere l’attenzione ai sostenitori di Trump. Chi sono i Trumpisti, gli elettori che hanno firmato per gli stupratori messicani e sono rimasti per il registro dei musulmani? Anche se sono elettori di destra del GOP, i sostenitori di Trump hanno un lignaggio politico che non è né interamente conservatore né interamente repubblicano. Sono invece di destra e populisti, più Charles Lindbergh che Robert Taft, più George Wallace che Barry Goldwater. La teorica politica Danielle Allen li ha chiamati etno-nazionalisti, un termine preferibile al mal definito peggiorativo “fascista”.
La domanda è come questi etno-nazionalisti siano arrivati a rappresentare una pluralità – forse anche una maggioranza – della base repubblicana. È una storia che inizia con la corsa di Goldwater nel 1964. Lo spettro del totalitarismo perseguitava quella campagna, i cui organizzatori di base sembravano uscire dal nulla, rovesciando l’establishment del partito. (Un articolo del Chicago Defender ha incarnato questa linea di argomentazione, iniziando con: “Questa è la Germania del 1933 e i nazisti stanno per prendere il controllo del paese”).
Ma Goldwater non era Trump. Era un conservatore libertario, un senatore in carica e qualcuno sospettoso delle parti più franche della sua base. E non fare errori: la sua base non era semplicemente composta da etno-nazionalisti. Goldwater ottenne il sostegno degli intellettuali conservatori, dei repubblicani forti e anche di una giovane Hillary Clinton. Di tanto in tanto corteggiava la frangia ma non riuscì mai ad abbracciarla del tutto, cosa resa chiara dalla sua decisione di escludere i membri della Birch Society dal team della sua campagna. Dopo Goldwater, gli etno-nazionalisti accorsero alla campagna di George Wallace. Wallace era un candidato che metteva a disagio sia i conservatori che i repubblicani. La rivista conservatrice National Review – che oggi denuncia Trump – pubblicò un articolo dopo l’altro criticando Wallace e il wallaceismo. L’editorialista Frank Meyer esemplificò la posizione della rivista quando chiamò Wallace un “demagogo” e un “populista”, sostenendo che il populismo era “l’opposto radicale del conservatorismo”.
Anche Richard Nixon, che correva contro Wallace nel 1968, aveva poco tempo per il populismo terragno e l’arcigna segregazione di Wallace. Ma Nixon vinse quelle elezioni per meno dell’1%. Riconobbe che le vecchie coalizioni politiche stavano cadendo a pezzi e cercò di corteggiare gli etno-nazionalisti che avevano dato a Wallace i loro voti. Abbandonò i suoi piani di azione affermativa, si mise a punzecchiare la stampa e iniziò a strombazzare la “maggioranza silenziosa”.
Quella maggioranza silenziosa, però, era un grande gruppo amorfo, in cui gli etno-nazionalisti come fazione distinta si sciolsero. Emersero di nuovo durante la candidatura di Pat Buchanan nel 1992 per la nomination repubblicana. Buchanan, con le sue politiche protezioniste, il rancore per la guerra culturale e la retorica delle frontiere chiuse, era un re degli etno-nazionalisti. Sia repubblicano che conservatore, cristallizzò il lamento etno-nazionalista (“dobbiamo riprenderci le nostre città, la nostra cultura e il nostro paese”) e poi esortò i suoi sostenitori a tornare al GOP.
E l’hanno fatto. Mentre la base del GOP diventava sempre più bianca, gli etno-nazionalisti arrivarono a comprendere una proporzione maggiore della base. Nel 2005-2006 erano abbastanza influenti da far saltare le riforme sull’immigrazione di George W. Bush. Nel 2012, potevano paralizzare qualsiasi candidato che non si fosse allineato sul loro tema centrale, l’immigrazione. ]
Questo conflitto è arrivato al culmine dopo la sconfitta di Mitt Romney nel 2012. All’indomani delle elezioni, i leader del partito e i politici conservatori hanno cercato di strappare il controllo dagli etno-nazionalisti nel loro campo. Lo status di front-runner di Trump, che dura da mesi, è la prova che hanno fallito. E il loro fallimento ha lasciato il resto del campo indeciso tra l’appellarsi alla base etno-nazionalista e l’imporsi sulla morale. Per lo più hanno scelto il primo, raddoppiando il trumpismo anche se lo denunciano. (Vedi Jeb Bush che nega che Trump sia un “candidato serio” nella stessa settimana in cui ha sostenuto un test religioso per i rifugiati).
Qualunque sia il destino finale di Trump nella campagna del 2016, la sua candidatura evidenzia non la sua abilità politica (che è minima) ma la volontà politica dei suoi sostenitori. È diventato una cosa rara, davvero: un miliardario che è la pedina delle masse.
Ma non piangere per Donald Trump. Sta ottenendo ciò che voleva fin dall’inizio: l’attenzione e la possibilità di apporre il suo nome su quante più superfici possibili. Piangete invece per i leader del GOP che hanno riconosciuto, tardivamente, di aver ristretto troppo la loro base, un errore che sembra avergli fatto perdere il controllo del loro partito, senza una chiara tabella di marcia su come recuperarlo”.
A scriverlo è Nicole Hemmer. Professore assistente in studi presidenziali presso il Centro Miller dell’Università della Virginia , lavora con il Programma di registrazioni presidenziali. In precedenza è stata associata onoraria al Centro Studi degli Stati Uniti. È l’autrice di Messengers of the Right: Conservative Media and the Transformation of American Politics.(Messaggeri della destra: I media conservatori e la trasformazione della politica americana).
L’articolo è del dicembre 2015. Riletto oggi è di un’attualità straordinaria. E iinquietante.
Un libro rivelatore
A scriverlo, assieme a Robert Costa, è una icona vivente del giornalismo americano, Bob Woodward. Il titolo del libro-inchiesta la dice tutta: Pericolo (edito da Solferino, nelle edicole dal Corriere della Sera)
Uno stralcio illuminante: “Alle 7.03 dell’8 gennaio 2021, due giorni dopo il violento assalto sferrato a Capitol Hill dai sostenitori del presidente Donald Trump, il generale Mark Milley, principale rappresentante delle forze armate del Paese e capo dello stato maggiore congiunto, fece una telefonata urgente su una linea top secret e criptata al suo omologo cinese, il generale Li Zuocheng, comandante dell’Esercito popolare di liberazione. Dai rapporti dettagliati cui aveva avuto accesso, Milley sapeva che Li e la leadership cinese erano rimasti allibiti e disorientati davanti alle riprese televisive di quell’attacco senza precedenti alle istituzioni americane.
Al telefono, Li sparò una raffica di domande. La superpotenza americana era instabile? Al collasso? Che stava succedendo? Sarebbero intervenute le forze armate? «So che da fuori la situazione può apparire precaria» rispose Milley, cercando di calmare il collega che conosceva da cinque anni. «Ma fatti simili rientrano nella natura della democrazia, generale. In realtà il nostro governo è solido al cento per cento. Va tutto benissimo. È solo che a volte la democrazia è confusionaria». Impiegò un’ora e mezza per cercare di rassicurarlo. Non era da Li agitarsi tanto, e il suo nervosismo poneva entrambe le nazioni sull’orlo del baratro. (…)
Milley sapeva per esperienza quanto Trump fosse impulsivo e imprevedibile. In aggiunta, era certo che l’esito delle elezioni avesse compromesso seriamente la sanità mentale del presidente, che manifestava crisi maniacali dando in escandescenze con tutti i rappresentanti del governo e costruendosi una propria realtà alternativa di infiniti complotti e brogli elettorali. (…) A che punto il susseguirsi degli eventi e le crescenti pressioni potevano indurre il capo dello Stato a ordinare un’azione militare? Designandoli comandanti in capo delle forze armate, la Costituzione aveva concentrato nelle mani dei presidenti americani poteri enormi, compresa la piena discrezionalità nella mobilitazione dell’esercito, una decisione che potevano prendere in ogni momento, e senza dar conto a nessuno.
Milley non poteva escludere che l’assalto del 6 gennaio, così inconsulto e selvaggio, fosse solo la prova generale di qualcosa di più grosso. Perciò era concentrato sul conto alla rovescia, mancavano dodici giorni alla fine della presidenza di Trump. E lui era determinato a fare il possibile affinché il passaggio di potere avvenisse in modo pacifico. (…)
Stabilita la linea di azione, Milley convocòtutti i capi del National Military Command Center (NMCC), il consiglio di guerra del Pentagono, che viene riunito in caso di ordini operativi d’emergenza da parte della massima autorità di comando nazionale — cioè il presidente o il suo successore — in vista di un’azione militare o dell’impiego di armi nucleari. (…) Senza fornire spiegazioni, Milley dichiarò di voler ripassare le procedure e i processi per il lancio delle armi nucleari. Solo il presidente poteva dare l’ordine, ricordò ai presenti. Ma poi aggiunse a chiare lettere che quell’ordine non poteva essere eseguito senza coinvolgere il capo dello Stato maggiore congiunto, cioè lui stesso. In base al protocollo esistente, era obbligatorio indire una teleconferenza cui, oltre al capo dello stato maggiore congiunto, avrebbero partecipato anche il segretario della Difesa e gli avvocati. (…) Specificò che la regola valeva per azioni militari di qualsiasi tipo, non soltanto per l’uso di armi atomiche. Il suo coinvolgimento era essenziale…”.
Questo era e resta Donald: un “Pericolo” per la democrazia. E non solo per quella americana.
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