Chi ha costruito i suoi fasti politici sul genocidio di un popolo, è capace di tutto. Anche di cancellare uno Stato e il suo popolo.
Ricordate la Cecenia?
A rinfrescare la memoria un bellissimo articolo di Repubblica datato giugno 1996.
“A volte basta un nome per identificare una guerra. My Lai, il villaggio vietnamita in cui i marines americani massacrarono 347 civili, in maggioranza vecchi, donne, bambini, simboleggia gli orrori del conflitto in Vietnam. Srebrenica, l’enclave mussulmana colpita dalla furia della “pulizia etnica” serba in Bosnia, riassume la tragedia della ex Jugoslavia. Chissà se Samashki, il villaggio ceceno teatro di feroci atrocità delle truppe russe (carri armati che sparano contro donne e bambini mentre escono dalle case a mani alzate, uomini bruciati vivi, cadaveri fatti a pezzi), diventerà agli occhi del mondo una metafora dell’intervento di Mosca nella piccola repubblica separatista nel sud della Russia. Probabilmente, no. Per quanto i mass media abbiano dedicato ampio spazio a Samashki e ai frequenti episodi dello stesso tipo verificatisi in Cecenia dall’ inizio del conflitto, il mondo civile, democratico, occidentale non reagisce con lo sdegno riservato a My Lai o Srebrenica. I morti e le atrocità in Cecenia contano di meno: se suscitano le proteste della comunità internazionale, sono di solito proteste a mezza voce, più formali che sentite. E il motivo è chiaro: non mettere in difficoltà Boris Eltsin, comunque preferibile al candidato comunista nelle elezioni presidenziali di giugno. Ma più la guerra in Cecenia va avanti, più la passività dell’Occidente appare ripugnante e scandalosa. La Croce Rossa internazionale ha denunciato “brutalità inquietanti” da parte russa. Il rapporto annuale sui diritti umani del Dipartimento di Stato americano ha accusato Mosca di “indiscriminato uso della forza, trattamento disumano dei civili, detenzioni arbitrarie, esecuzioni sommarie”. Amnesty International invita Europa e America a intervenire sul Cremlino, affinché l’ “offensiva di primavera” lanciata in questi giorni non finisca in una carneficina di donne e bambini. Tuttavia, primi ministri, ministri degli Esteri, presidenti, passano da Mosca senza tradurre denunce, accuse, appelli, in decise pressioni politiche sul capo del Cremlino. Al recente summit internazionale sul terrorismo in Egitto, Eltsin ha detto in sostanza che la Cecenia è appunto un “problema di terrorismo”, e perlomeno pubblicamente nessuno lo ha contraddetto. Se a qualcuno il prezzo pagato finora dai ceceni non sembra abbastanza alto (40 mila morti e 500 mila profughi), va ricordato che i ceceni sono un piccolo popolo, in tutto un milione di persone: fatte le proporzioni, è come se l’Italia avesse sofferto 2 milioni di morti e 30 milioni di profughi. In Cecenia, insomma, si sta consumando il genocidio di un popolo, davanti al quale le razionali argomentazioni della politica (secessione sì o no, diritto all’ autodeterminazione o autonomia all’ interno della federazione russa) passano in second’ ordine. In passato acerrimo fustigatore dei ceceni, ora Aleksandr Solgenitsyn riconosce che, con le loro sofferenze e il loro coraggio, i separatisti si sono guadagnati il diritto all’ indipendenza. Sarebbe doveroso riconoscere che come minimo si sono guadagnati il diritto alla solidarietà occidentale”.
In memoria di Anna e Antonio
Anna Politkovskajanasce a NewYork il 30 agosto 1958 da due diplomatici ucraini, funzionari Urss all’Onu. Si laurea nel 1980 in giornalismo all’Università di Mosca, con una tesi sulla poetessa Marina Cvetaeva.
Inizia nel 1982 a lavorare all’Izvestia, dove rimane fino al 1993. Dal 1994 al 1999 collabora con diverse radio e TV libere. Nel 1998 si reca per la prima volta in Cecenia come inviata della Obšcaja Gazeta per intervistare il neo-eletto Presidente della Cecenia, Aslan Mashkadov. A metà del 1999 passa alla Novaja Gazeta, il giornale sul quale pubblica le inchieste scomode e i reportage scottanti sulla Cecenia, il Daghestan e l’Inguscezia, criticando senza mezzi termini il presidente russo Putin e i politici locali, “fantocci” di Mosca.
Si reca molto spesso in Cecenia per documentare i massacri e denunciare la politica russa, sostenendo le famiglie delle vittime civili, visitando ospedali e campi profughi, intervistando sia militari russi che civili ceceni. Interviene anche nella trattativa durante l’assedio della guerriglia cecena al Teatro Dubrovka di Mosca, che termina con l’irruzione delle forze speciali di Putin, la liquidazione dei guerriglieri asserragliati nel teatro e molte vittime civili tra gli spettatori.
Nel settembre 2004 si sente male sull’aereo che la sta portando a Beslan, dove è in corso l’assedio della scuola presa d’assalto da guerriglieri ceceni che tengono in ostaggio molti bambini, colpita da un malore e perde conoscenza. L’aereo è costretto a tornare indietro e si sospetta che Anna sia stata oggetto di un tentativo di avvelenamento.
Nel dicembre 2005, durante una conferenza di Reporter Senza Frontiere a Vienna sulla libertà di stampa afferma: “Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano”. Dice di considerarsi “una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo” e denuncia il clima di intimidazione instaurato da Putin contro la libertà di stampa e di parola. È consapevole di rischiare la vita con la sua opera di denuncia e controinformazione, ma non si ferma.
Il 7 ottobre 2006 viene uccisa nell’ascensore del palazzo di Mosca dove abita, colpita da quattro colpi di pistola, di cui uno alla testa.
La Novaja Gazeta pubblica due giorni dopo gli appunti in preparazione dell’articolo a cui Anna stava lavorando, un’inchiesta dettagliata sulle torture commesse dalle forze di sicurezza cecene legate al Primo Ministro Ramsan Kadyrov. Ai funerali, celebrati in una zona periferica di Mosca non facilmente raggiungibile, partecipa una grande folla commossa, ma nessun rappresentante del governo russo”.
“Parlare di Antonio significa parlare di guerre nascoste, dimenticate. Come era appunto la guerra in Cecenia: guerre delle quali era impedito a chiunque di documentare l’orrore. Antonio Russo è stato il tenace cronista del ghetto di Groznyj, è stato, secondo la definizione di Barbara Spinelli: “Una lampada accesa nel cuore del ghetto in fiamme. […]. Ventun anni sono trascorsi dal suo assassinio, da quando il suo corpo fu trovato, il 16 ottobre 2000, sulla strada che da Tbilisi porta al confine con l’Armenia, a 25 chilometri dalla capitale della Georgia, poco distante da una base militare russa e dal Caucaso meridionale tornato in fiamme il 27 settembre del 2020 quando si riaccese il trentennale conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, un’enclave a maggioranza armena situata in territorio azero, e che ha prodotto altre migliaia di morti e oltre centomila sfollati. Conflitto conclusosi il 9 novembre di quello stesso anno con un accordo tra i due paesi mediato dalla Russia.
L’autopsia effettuata sul corpo di Antonio non riscontrò tracce di ferite da incidente stradale o da aggressione, ma i suoi organi interni erano distrutti. Aveva ancora al collo una catenina con un crocifisso d’oro. Il suo appartamento di Tbilisi fu messo a soqquadro e risultarono mancanti la videocamera, il registratore, le cassette Vhs e i taccuini, mai più ritrovati. Nulla più si è saputo sulla sua uccisione, non si conoscono gli autori né i mandanti del suo assassinio.
Sappiamo però che è stato schiacciato come un insetto, in perfetto stile Kgb, da chi in quei giorni, la Russia di Putin, tentava di imporre l’espulsione del Partito radicale dall’Onu, cioè di annullarne lo status di Ong, con l’accusa di appoggio al terrorismo ceceno. Il voto era fissato per il 18 ottobre 2000, ma quel giorno l’Onu respinse la richiesta russa.
Antonio è morto per contribuire a che si evitasse che la tragedia in atto in Cecenia si compisse fino in fondo. Nel suo ultimo intervento pubblico ad una conferenza sui danni ambientali causati dal conflitto ceceno, tenutasi in Georgia, parlò di un probabile uso, da parte di Mosca, di proiettili all’uranio impoverito nella repubblica caucasica e, nel corso di una telefonata aveva detto alla madre, pochi giorni prima della morte, di essere in possesso di una videocassetta dal contenuto esplosivo, nella quale si documentavano le torture perpetrate dall’esercito russo ai danni della popolazione civile cecena”.
Sono alcuni passaggi del pezzo, partecipe e documentato, scritto da Mariano Giustino per Huffington Post il 16 ottobre 2021, nel ventunesimo anniversario dell’uccisione di Antonio Russo, inviato di guerra di Radio Radicale.
Criminali riconoscenti
Il presidente ceceno Ramzan Kadyrov ha messo a disposizione delle forze russe i volontari delle sue milizie. Come riportato da Adnkronos, l’esercito ceceno è stato autorizzato ad andare a combattere nelle zone più critiche dell’Ucraina a sostegno delle forze russe. Kadyrov ha radunato oltre 12 mila unità delle forze speciali, ma in Cecenia ci sarebbero circa 70 mila persone pronte a partire alla volta di Kiev. “I combattenti hanno espresso la loro piena disponibilità a portare a termine obiettivi di qualsiasi livello di complessità”, quanto reso noto dal Caucasian Knot.
Di fronte ai 12mila uomini armati radunati nella capitale Groznyj, Kadyrov si è rivolto al Presidente ucraino Zelensky dicendo: “Colgo l’occasione di dare un consiglio all’attuale Presidente ucraino Zelensky, che potrebbe anche diventare ex Presidente, affinché chiami il nostro Presidente, il comandante supremo Vladimir Putin e chieda scusa”.
Non è dato sapere la data della realizzazione del video, che circola di fatto dopo la diffusione delle immagini dei soldati ceceni intenti a pregare in una foresta. Secondo quanto diffuso nella serata del 24 febbraio 2022 da Chechyatoday.com, in base a “rapporti non confermati” alcuni rappresentanti delle forze armate cecene e i propri soldati si troverebbero in Ucraina o più precisamente nel Donbass.
Il regime diKadyrov continua ad avere la principale opposizione nelle madri dei civili torturati, scomparsi (più di 10.000 persone) o uccisi (tra i quali 35.000 bambini, numero più alto dei desaparecidos argentini) nei campi “di filtraggio” o per mano delle “unità di pulizia dei boschi”, nome utile a coprire veri e propri squadroni della morte come i “Kadyrovity”, direttamente riconducibili all’attuale presidente .«Il terrorismo islamico è sicuramente un problema in Cecenia, ma è sbagliato ricondurre tutta la crisi a questa minaccia. Non si devono confondere cause e conseguenze: la causa del conflitto ha radici profonde e lontane, mentre il terrorismo è un sottoprodotto della guerra», denunciava in un’intervista del 2006 a SwissInfo Andreas Gross, all’epoca relatore speciale per la Cecenia al Consiglio d’Europa.
Sparizione in diretta tv.
Fatima Bazorkina suo figlio lo vede sparire quasi in diretta televisiva. Durante un servizio della Ntv, infatti, vede il generale Alexander Baranovordinare ad un prigioniero dell’esercito russo di sparare. Quel prigioniero, Yandievil nome, è il figlio di Fatima. La donna non aveva più avuto notizie di lui fino a quel momento. Fatima, tra il 2000 ed il 2006, ha girato la Russia alla ricerca di notizie o del corpo di suo figlio, senza successo e senza ricevere risposta alcuna alle tante lettere scritte alle autorità. Il generale Baranov, invece, è stato promosso a coordinare tutte le forze armate del Caucaso settentrionale. Cecenia inclusa, naturalmente. Sparito nel nulla dal 1999 – da quando cioè aveva abbandonato gli studi in sociologia all’Università di Mosca per andare a Groznji in cerca del padre – Yandiev non risulta né ucciso, né mai arrestato con la propria o con altra identità, finché nel 2004 viene accusato di essere entrato a far parte di un gruppo armato illegale. Secondo i russi vive in clandestinità. Neanche la Corte europea è riuscita ad andare più in là della sparizione, chiudendo il caso il 27 luglio 2006 come “morte presunta”.
Violazione del diritto alla vita, tortura, detenzione illegale sono solo alcune delle accuse più comuni mosse contro la Russia davanti alla Corte.
D’altronde il rapporto tra l’attuale presidente russo e la piccola repubblica caucasica è un rapporti consolidato: «Tra Putin e la seconda guerra bisogna porre un segno di eguaglianza. Lui è stato eletto sull’onda di una propaganda fortemente militare e su quest’onda ha continuato a governare», raccontava Anna Politkovskaja nel documentario “Coca – la colomba della Cecenia”, film-documentario di Eric Bergkraut che ha per protagonista Zainap Gashaeva, fondatrice della ong Echo Vojny (“Eco della guerra”) che si occupa di orfani di guerra, pace e diritti umani.
La seconda guerra cecena, dunque, come «forma perversa di “campagna elettorale”, progettata freddamente a tavolino e costruita sulla pelle di migliaia di civili, per creare attorno a Vladimir Putin, uomo di fiducia di Eltsin, il consenso di cui aveva bisogno per conquistare la presidenza della Federazione», come scriveva Carlo Gubitosa nel suo “Viaggio in Cecenia “del 2004. Una campagna che era stata finanziata, cinque anni prima, anche attraverso la cancellazione dei 4,5 miliardi di dollari di debito russo da parte dei paesi del G8. Il petrolio di Groznyi (circa 4mila tonnellate al giorno) non è un interesse solo russo, evidentemente.
Putin – all’epoca un semisconosciuto colonnello messo alla guida dell’Fsb, il Kgb post-sovietico – diventa, grazie alla sua mediatizzazione nel racconto della seconda guerra cecena, l’”uomo forte” di cui la Russia ha bisogno per far dimenticare la stretta relazione tra Eltsin e l’alcol. Una necessità nella quale il “nemico ceceno” – dipinto «come una popolazione composta unicamente da criminali e terroristi spietati», scrive ancora Gubitosa – torna ad avere una funzione vitale e nella quale importante è il ruolo della propaganda mediatica, che ha permesso di nascondere 25.000 civili uccisi (14.000 i ribelli), 200.000 profughi – ai quali viene difficilmente concesso asilo politico nell’Unione – e 5.000 scomparsi nellefosse comuni o nelle carceri illegali tra il 1999 ed il 2009, anche grazie all’adesione di Mosca alla guerra al terrorismo qaedista post 11 Settembre.
«Tutti dovranno andare davanti ad un tribunale. Quelli che [la guerra, ndr] l’hanno iniziata e quelli che l’hanno continuata. I russi come i ceceni colpevoli» dice la Gashaeva nel documentario. Secondo la Politkovskaja (nel 2004) «sarebbe necessaria un’inchiesta internazionale».
Anna è stata uccisa. E come lei Antonio Russo e altri coraggiosi giornalisti, a centinaia, che hanno raccontato gli orrori ceceni e i crimini della cricca al potere a Mosca.
A capo della quale, c’è sempre lui: Vladimir Putin.