Perché diciamo No senza se e senza ma ai fautori del "fine guerra mai".

Sostenere la resistenza ucraina è un investimento su una pace giusta. E la resistenza si sostiene non solo ma anche armandola. Anche su questo punto, non devono esserci ambiguità.

Perché diciamo No senza se e senza ma ai fautori del "fine guerra mai".
I bambini ucraini vittime della guerra
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

24 Aprile 2022 - 17.31


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Resistenza e Resa. Sono un ossimoro. La resistenza è condizione di una pace giusta, onorevole. La resa è la sanzione di una sconfitta maturata sul campo e poi sanzionata da un foglio di carta. “Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace”.  Dunque, nessun dubbio, almeno per noi di Globalist.

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Sostenere la resistenza ucraina è un investimento su una pace giusta. E la resistenza si sostiene non solo ma anche armandola. Anche su questo punto, non devono esserci ambiguità. Nessuna ambiguità su chi, in questa tragica vicenda, è l’aggredito e chi è l’aggressore. Nessun dubbio che quella messa in atto dalla Russia sia una guerra d’aggressione contro uno Stato sovrano. Ma non ci si può fermare a queste premesse. Occorre partire da esse per andare oltre. E quell’”oltre” va chiarito.

Fuori da ogni approccio retorico o calzando l’elmetto. E allora: neanche Zelensky può ritenere che la resistenza ucraina, pur super armata, potrà mai sconfiggere una potenza nucleare come la Russia. Per quanto armata, l’asimmetria militare resterà tale. E allora? Che fare? Le risposte sono tante. E diverse. C’è chi sostiene, piò o meno apertamente, che occorre portare alle lunghe la guerra e, attraverso l’arma delle sanzioni, provare a “strangolare” l’economia russa e, in questo modo, far vacillare, se non addirittura crollare, il potere putiniano. Guardiamo alla Storia, e cerchiamo di imparare qualcosa dalle lezioni che ci ha dato. Le sanzioni – Iraq docet – affamano un popolo e non gli autocrati al potere. Ma non c’è solo questo. Trascinare alle lunghe la guerra può essere nell’interesse dei nostri alleati di oltre Oceano e dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Biden è in crollo nei sondaggi, e quando un presidente americano è in questa situazione – vedi George W.Bush – ecco provare a risalire la china e conquistare consensi interni perduti, vestendo i panni del “commander in chief”. A Bush jr gli andò bene, al Medio Oriente male. Molto male. Perché quella sciagurata guerra, nata da una bufala spacciata per verità dal presidente Usa e dal suo vassallo londinese, Tony Blair (armi di distruzione di massa in mano a Saddam), non solo non stabilizzò l’Iraq ma destabilizzò l’intera regione. E ora la storia si potrebbe ripetere nel cuore dell’Europa. Le elezioni di mid term negli Usa sono in programma a novembre. La guerra non può trascinarsi fino ad allora. Non è nell’interesse dell’aggredito. E non è nell’interesse dell’Europa, che dal trascinamento della guerra ha solo da perdere.  E allora, ecco un’altra asserzione che dovrebbe unire il fronte progressista: un no secco, chiaro, a chi è fautore di un “fine guerra mai”. Che fare, allora? Evitare una escalation militare. Lavorare per una “escalation” diplomatica. E questo significa porsi il problema di uno sbocco negoziale. Su questo occorre essere realisti. E prendere atto che un compromesso negoziale non può fondarsi sul ritorno allo status quo ante il 24 febbraio. 

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Cosa vuol dire? Vuol dire, ad esempio, che l’autodeterminazione del popolo ucraino va “combinata” con la realtà, composita, di quel popolo. Per essere ancora più chiaro: il Donbass.

In concreto: un referendum. In cui l’alternativa è questa: far parte di uno Stato federale d’Ucraina o separarsi. E’ un cedimento a Putin? No. E’ un punto di caduta possibile di un negoziato tra belligeranti. E qui arriva il discrimine. Il non detto che va svelato. Per quale finalità sosteniamo l’Ucraina, anche militarmente? Sostenere l’aggredito, è la premessa, non il fine. Il fine, dunque. La mettiamo giù brutalmente: da una parte ci sono quelli che sostengono, con accenti diversi, che la resistenza serve per arrivare ad una pace giusta, quanto più onorevole, con la Russia. E altri, soprattutto a Washington e a Londra, per cui l’Ucraina è diventata il campo di battaglia di una guerra che deve portare alla sconfitta della Russia. Della Russia, e non “solo” di Vladimir Vladimirovich Putin. Noi siamo nel primo campo. Senza se e senza ma. 

Chi sia Putin, Globalist lo ha documentato in decine di articoli. Chi siano i suoi veri fans in Europa e in America, è stato oggetto di una nostra inchiesta in due puntate. Non è questo il punto. Il punto è la Russia. La sua storia, la sua collocazione geopolitica. Il suo essere parte dell’Europa e come tale coinvolgibile in una Helsinki 2 sulla sicurezza del Vecchio continente. 

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“Putin usa la tradizione per fini di potere, questo è indubbio, ma questa tradizione esiste, non è certo una sua invenzione, ed è fortemente radicata nel popolo russo. Vede, l’errore più grande commesso da Barack Obama nei rapporti con Mosca fu quando, nel pieno della crisi ucraina, l’allora presidente degli Stati Uniti definì la Russia una ‘potenza regionale’. Putin approfittò di quello scivolone per battere sul tasto della “vlast”, della potenza russa che è radicata nei secoli e che supera ogni esperienza storica, anche quella dell’Unione Sovietica. Vlast come potenza ma anche come patria. Non va dimenticato che per la Russia la Seconda guerra mondiale è stata anzitutto una ‘guerra patriottica’ a difesa non di un regime o dell’ideologia comunista ma della ‘sacra madre terra russa’. Il discorso sembra ripetersi oggi, solo che a posto di Obama c’è la premier britannica. Quello che ha colpito e ferito Putin, e che, a mio avviso, spiega quella frase, è il trattamento dall’alto in basso riservato alla Russia.[…]. La questione è se la Russia deve essere considerata parte o soluzione di un problema enorme: quello di un nuovo governo mondiale. Per quel che può contare, il mio consiglio, soprattutto ai leader europei, è quello di considerare Mosca come partner per la stabilizzazione delle aree di crisi e su questioni cruciali come quella energetica. Ed è per questo che ho sempre ritenuto un’arma spuntata, oltre che una strategia sbagliata, quella delle sanzioni”.

 E’ un pezzo dell’intervista, concessa a chi scrive, dal professor Vittorio Strada, tra i più autorevoli conoscitori del “pianeta Russia”, scomparso il 30 aprile 2018. L’intervista è una delle ultime che concesse. Illuminante.

Un altro che la Russia l’ha conosciuta come le sue tasche e raccontata magistralmente è Demetrio Volcic, storico, indimenticabile corrispondente della Rai da Mosca, scomparso il 5 dicembre 2021 all’età di 90 anni. Il 6 dicembre 2015 concesse una straordinaria intervista ad Antonio Gnoli pubblicata, quel giorno, da Repubblica. Straordinaria, grazie anche alla sapienza giornalistica dell’intervistatore, per l’umanità, le emozioni, i racconti personali, di una vita, umana e professionale, di una ricchezza fuori dal comune.

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Alcuni passaggi: 

In che anni sei stato a Mosca?
Dal 1974 all’80 e poi sono tornato durante gli anni della perestroika.
Vedesti il tramonto e la fine di un totalitarismo.
Non ne sarei così sicuro. Ha solo cambiato pelle. Il totalitarismo fu una scorciatoia alla modernità. Lenin intuì che il comunismo erano i soviet più elettricità. Stalin ci aggiunse l’industria pesante. Krusciov esportò l’utopia tecnologica nello spazio e Breznev immobilizzò tutto questo. Congelò l’intero paese come nella migliore tradizione dell’inverno russo.

Ci può essere un paese migliore senza democrazia?

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Per noi occidentali la questione neanche si porrebbe. Ma lì? La Russia non è un paese lineare. La modernizzazione è avvenuta a tappe forzate. E il sottofondo zarista non è mai stato del tutto cancellato…

Che cosa non ha funzionato?
“L’economia del piano è stata un disastro. Su questo l’Occidente ha stravinto. Pensare che da Mosca potevano decidere il prezzo di una zappa o di un ago prodotto nella Kirgizija, o la quantità di patate da produrre in Estonia o il grano in Georgia, si rivelò una follia assoluta. Ma questa ormai è storia e non solo economica”.
Oggi la storia è un’altra.
Non credere. Un paese che è stato grande non rinuncia facilmente ai suoi sogni imperiali. Ho visto e conosciuto bene Gorbaciov e poi Eltsin. Nel periodo della perestrojka divenne di moda tra gli alti dirigenti del partito trovarsi qualche parente che fosse stato perseguitato dalla repressione. La verità è che il potere non muta la sua natura e c’è sempre un nuovo padrone dietro la porta pronto a entrare. Non bussa, non chiede permesso. Sfonda e irrompe…

Demetrio Volcic e Vittorio Strada non hanno mai fatto sconti a Putin. Ma hanno sempre cercato di capire la grandezza della Russia. E per questo l’hanno amata. 

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Umiliarla fa solo il gioco dello Zar del Cremlino. 

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