Una celebrazione insanguinata. Perché la cifra del presente in Israele resta quella della paura e del terrore. La polizia israeliana ha identificato palestinesi due sospettati di essere i responsabili dell’attentato terroristico di giovedì sera ad Elad in cui sono morti 3 israeliani e feriti altri 4. Si tratta di Asad Alrafaani (19 anni) e Sabhi abu Shakir (20), entrambi del villaggio di Rumana vicino Jenin, nel nord della Cisgiordania. Le forze di sicurezza hanno lanciato una caccia all’uomo in tutta la zona per individuarli ed hanno chiesto alla popolazione di segnalare possibili informazioni. Gli aggressori – secondo la ricostruzione della polizia – armati, a quanto sembra, sia di un’ascia (o un machete) sia di armi da fuoco hanno preso di mira la gente che stava passeggiando al termine della giornata di festa in due differenti posti, uno dei quali nei pressi del Parco dell’Anfiteatro di Elad. Poi si sono dati alla fuga. I media hanno detto che le tre vittime sono tutte sulla quarantina; dei quattro feriti nell’attentato, due sono ricoverati all’ospedale Sheba di Tel Aviv in gravi condizioni.
Il ministro della difesa Benni Gantz e il capo di stato maggiore dell’esercito Aviv Kochavi hanno immediatamente convocato una riunione e fatto il punto della situazione con le forze di sicurezza.
Il presidente palestinese Abu Mazen ha condannato l’attento di ieri sera in cui sono stati uccisi 3 israeliani e feriti in 4. Lo riferisce l’agenzia Wafa. “L’uccisione di civili israeliani e palestinesi – ha sostenuto Abu Mazen – non fa che accrescere l’escalation in un momento in cui tutti ci sforziamo di raggiungere la stabilità e prevenire l’escalation stessa”. “Solo una pace duratura, comprensiva e giusta – ha concluso – è la via più corretta per garantire sicurezza e stabilità ai 2 popoli e alla regione”.
Hamas saluta “gli eroi” che hanno seminato la morte ad Elad “Quella operazione – ha affermato il portavoce Hazem Kassem – è una conseguenza della collera palestinese per i ripetuti attacchi degli occupanti, delle loro istituzioni e dei loro coloni contro la moschea al-Aqsa” di Gerusalemme, dove anche oggi si sono verificati incidenti. “Il popolo palestinese – ha aggiunto – è determinato a difendere i suoi luoghi santi. Ogni profanazione della moschea va sempre essere punita”. Nei giorni scorsi il leader di Hamas Yihia Sinwar aveva fatto appello ai palestinesi ad impugnare le armi per “difendere al-Aqsa”.
L’attentato a Elad è il sesto in Israele dalla fine di marzo (18 morti in totale). Il 3 maggio in Israele si celebrava il Giorno dell’Indipendenza, 74 anni dall’istituzione dello Stato ebraico. Il giorno dopo, la morte torna a bussare.
Una Indipendenza insanguinata
L’editoriale di Haaretz precede l’attacco di Elad. E ha qualcosa di “profetico”: “Il giorno dell’indipendenza non è una festa per tutti i cittadini d’Israele. L’evento più importante nella storia del popolo ebraico, grazie al quale ha ottenuto uno stato indipendente, sovrano e riconosciuto a livello internazionale, ha contemporaneamente trasformato in rifugiati centinaia di migliaia di palestinesi che vivevano entro i suoi confini. La maggior parte di loro andò in esilio negli stati arabi vicini, mentre i circa 160.000 che rimasero in Israele furono costretti a vivere sotto il dominio militare. Dal punto di vista dei palestinesi, la creazione dello Stato di Israele è stata una “nakba”, una grande catastrofe nazionale che ha distrutto il loro mondo e infranto le loro aspirazioni. Questa profonda ferita ha plasmato il travagliato rapporto tra lo stato ebraico e la sua minoranza araba, che oggi comprende più del 21% della popolazione. I cittadini arabi israeliani, che hanno condiviso la crescita economica del paese e in alcuni casi hanno anche servito nel suo esercito, si considerano ancora una parte inseparabile della nazione palestinese e della sua eredità, comprese le sofferenze che ha sopportato e continua a sopportare. Molti di loro hanno parenti che sono diventati rifugiati negli stati arabi o nei territori occupati, e alcuni sono diventati sfollati interni in Israele. Tra questi ultimi spiccano gli sfollati interni dei villaggi di Iqrit e Kafr Bir’im. A circa 500 residenti di Iqrit e a circa 700 residenti di Bir’im fu ordinato di lasciare le loro case durante la guerra d’indipendenza, con la promessa che sarebbero potuti tornare presto, quando la situazione della sicurezza lo avrebbe permesso. Quella promessa non fu mai mantenuta. Nel luglio 1951, l’Alta Corte di Giustizia ordinò al governo israeliano di permettere il ritorno dei residenti di Iqrit, ma la sentenza fu ignorata. Nel dicembre 1995, un comitato ministeriale guidato dal ministro della Giustizia David Libai raccomandò di restituire agli abitanti di Iqrit e Bir’im circa 300 acri di terra che un tempo appartenevano loro. Anche questa raccomandazione è stata ignorata. I governi successivi hanno ribadito l’affermazione che, nonostante le promesse fatte durante la guerra, permettere agli ex residenti di tornare nei loro villaggi costituirebbe un precedente che potrebbe essere interpretato come il riconoscimento israeliano del diritto al ritorno per tutti i rifugiati palestinesi. Questa affermazione è infondata. Israele ha un debito storico con gli abitanti dei due villaggi. Deve correggere l’ingiustizia e mantenere la sua promessa. Dopo 74 anni come stato indipendente, uno dei più forti del mondo, che definisce il suo esercito il più morale del mondo, Israele deve tendere la mano agli sfollati interni di Iqrit e Bir’im – non solo come gesto di buona volontà ma come rimborso di un debito morale. Un passo come questo non comprometterà la sicurezza dello stato e non cancellerà la memoria della Nakba, ma avrà un importante valore simbolico dimostrando che Israele è capace di esaminare il suo passato e di costruire una nuova partnership con i suoi cittadini arabi”, conclude l’editoriale.
Altrettanto “preveggente” è lo scritto di una delle firme storiche del quotidiano progressista di Tel Aviv: Zvi Bar’el.
Scrive Bar’el: “Agli israeliani sarà garantito un senso di sicurezza mercoledì. Come ogni giorno dell’Indipendenza, le feste autunnali, Purim e Passover, anche quest’anno le porte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza saranno chiuse ai palestinesi, e non sarà loro permesso di entrare nei confini dello Stato d’Israele. Non c’è niente come queste chiusure per rivelare ciò che non può essere oscurato: Non c’è una Grande Terra d’Israele. La luminosa Linea Verde, ornata da un muro violato, risorge in questi momenti e dichiara enfaticamente che ci sono in realtà due stati per due popoli.
Le chiusure sbattono il dito medio in faccia ai coloni, si fanno beffe della loro infondata pretesa di essere il baluardo dello Stato d’Israele e rendono chiaro ai festeggiati del Giorno dell’Indipendenza che Israele è ancora un piccolo paese circondato da nemici. Gli accordi di pace firmati con l’Egitto e con la Giordania, e qualche decennio più tardi con il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Sudan, non hanno dissipato il nostro senso di soffocamento né eliminato il terrore del coltello, delle forbici, del fucile rubato o fatto in casa, del razzo e della bomba. Sono in costante attesa, dietro ogni angolo. Israele è uno stato indipendente e una storia di successo economico, ma rimane così timoroso che nei giorni festivi impone chiusure e durante il resto dell’anno i suoi cittadini portano pistole alla mano, e ha un esercito che è “preparato per ogni evenienza”.
Un tale Stato può essere indipendente, ma non libero. Nove milioni di cittadini vivono in uno stato indipendente, mentre un altro mezzo milione vive dall’altra parte del recinto su una terra che non gli appartiene, una parte della quale è stata annessa allo stato nello stesso modo in cui la Russia si è annessa la penisola di Crimea. Eppure, quando il termine “Cisgiordania” è uscito dalla bocca del primo ministro Naftali Bennett, si è alzato un urlo agghiacciante, come se la nazione si fosse svegliata dal suo dolce sonno e fosse costretta a guardarsi in faccia. Né “Giudea e Samaria” né la Terra Promessa, ma piuttosto la vergognosa occupazione di una terra che non le appartiene. La bolla è scoppiata, e proprio da colui che dovrebbe proteggere ferocemente il bluff a tutti i costi. Uno stato che si aggrappa disperatamente alla falsa semantica per giustificare la missione divina che è la sua ragion d’essere non è uno stato libero. Sarà sempre dipendente dalle interpretazioni dei rappresentanti di Dio.
Anche il concetto di indipendenza richiede una rivalutazione dopo 74 anni di statualità, 55 dei quali in schiavitù dei territori. Quando i valori, l’identità, le leggi, il bilancio statale, l’esercito e il sistema educativo di uno stato sono dettati e modellati da militanti messianici, rivoltosi e criminali, che hanno inserito il loro maligno nazionalismo e razzismo nelle sue viscere, quello stato non può essere veramente indipendente. È uno stato prigioniero che non solo si è innamorato dei suoi rapitori, ma ha adottato loro e i loro insegnamenti e li ha trasformati nelle sue colonne di fuoco e nuvole.
Quando la Legge sullo Stato-nazione afferma nella sua clausola iniziale che “la Terra d’Israele è la patria storica del popolo ebraico, nella quale è stato stabilito lo Stato d’Israele”, crea una sovrapposizione tra “la Terra d’Israele” e lo Stato d’Israele, segnando così quelli che sono i veri confini della nostra patria. I critici della legge sottolineano la questione dell’uguaglianza, che è assente in essa, e il terribile danno che fa alle minoranze non ebraiche. Ma l’essenza della legge è molto peggiore perché afferma che finché lo Stato d’Israele non è congruente con la Terra d’Israele, la nostra indipendenza non è completa, come se fosse un’enclave dentro lo spazio che appartiene alla nazione israeliana. Qui non stiamo parlando solo di un territorio geografico, ma della definizione del nazionalismo ebraico, che non può essere soddisfatto con niente di meno che l’intera Terra d’Israele.
Se all’inizio del nostro viaggio ci accontentavamo del riconoscimento internazionale della nostra sovranità e indipendenza, con la comprensione che gli ebrei avevano diritto a uno stato come tutti gli altri, cinque decenni e mezzo di occupazione si sono diffusi in noi come un cancro, prendendo il sopravvento e distruggendo il suo ospite al punto da identificare proprio ciò che comprende questo stato indipendente”.
Fin qui Bar’el
La “Questione israeliana”
La “Questione israeliana” è metapolitica. Perché investe la psicologia di una nazione, e pone un problema ancor oggi irrisolto: quello dell’identità. Individuale e collettiva. Che affonda in una memoria secolare, intrecciando religione, storia, politica. La questione israeliana come questione identitaria. Che ha avuto un passaggio storico il 19 luglio 2018 alla Knesset.
Un punto di non ritorno. La costituzionalizzazione di una “etnocrazia”. Gideon Levy, firma storica di Haaretz, censore critico, e per questo odiato, della destra ultranazionalista al potere, racconta così l’approvazione da parte della Knesset il 19 luglio 2018 della legge fondamentale attraverso la quale Israele si riconosce “Stato nazionale del popolo ebraico”.
“Il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno… Se lo Stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo stato nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante”.
Così Levy.
Identità ebraica e sistema democratico: erano i due pilastri su cui si reggeva l’utopia sionista, quella dei padri della patria. Settant’anni dopo la fondazione dello Stato d’Israele, l’uno, l’identità ebraica assolutizzata e costituzionalizzata, ha finito per minare l’altro: l’idea di una democrazia inclusiva.
Nei circoli intellettuali progressisti è da tempo aperto un dibattito sullo Stato bi-nazionale. Così si era espresso, in una intervista concessa a chi scrive da Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano, scomparso il 21 giugno 2020.
“ Integrazione o apartheid: tertium non datur. Certo, sul piano dei principi resta la soluzione ‘a due Stati”, e qui c’è la responsabilità storica della comunità internazionale, non solo degli Stati Uniti e
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