La Nato e il Sultano Erdogan, doppiogiochista di Ankara

Sultano frena e offre una sponda allo Zar. La Turchia "non dirà sì" all'ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Ma...

La Nato e il Sultano Erdogan, doppiogiochista di Ankara
Putin e Erdogan
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17 Maggio 2022 - 17.35


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Nato, il doppiogiochista di Ankara. Altro che Draghi, Scholz, Macron. Il vero antagonista di Joe Biden all’interno dell’Alleanza atlantica è Recep Tayyp Erdogan.

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Su due tavoli

Il Sultano frena e offre una sponda allo Zar. La Turchia “non dirà sì” all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, ha dichiarato oggi il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, in una conferenza stampa congiunta ad Ankara con l’omonimo algerino, Abdelmadjid Tebboune.  “Non diremmo di sì alla loro adesione alla Nato, senza offesa”, ha detto Erdogan, “da entrambi i Paesi non cè un atteggiamento chiaro nei confronti delle organizzazioni terroristiche”.   “Verranno lunedì, verranno a convincerci? Non si diano pena”, ha aggiunto Erdogan, “non diremo di sì all’ingresso nella Nato, un’organizzazione di sicurezza, a coloro che impongono sanzioni alla Turchia”. Il capo di Stato turco si riferisce al sostegno dei due Paesi nordici all’Ypg, le milizie curde del Nord della Siria che Ankara ritiene terroristi, e ai loro limiti alle esportazioni di tecnologie militari in Turchia. Erdogan, ha accusato la Svezia di essere un “incubatore di organizzazioni terroristiche”.  “Non hanno una posizione chiara contro le organizzazioni terroristiche. Non consegnano i terroristi”, ha proseguito Erdogan. “Un musulmano non si fa mettere nel sacco due volte”, ha aggiunto il presidente turco, citando la passata adesione della Grecia, arcirivale di Ankara.

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Le carte del Sultano

Di grande interesse è una intervista a Il Sussidiario di Michela Mercuri, docente di Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata.

“Erdogan, come altri attori della Nato, pensa al proprio interesse nazionale e può permetterselo, perché la Turchia ospita molte basi Nato, è un asset importante e per questo l’Alleanza atlantica se lo deve tenere. E lui ne approfitta: fa affari con la Russia e fa pesare la sua posizione geo-strategica, che gli ha permesso di ricattare l’Europa sui migranti – rimarca Mercuri -. Ricordiamoci che abbiamo pagato per tenerli in Turchia ed evitare che invadessero i nostri Paesi. Strategicamente quindi ha saputo usare la sua posizione pur rimanendo nella Nato.[…]. Da un lato Erdogan è nella Nato, ma dall’altro ha buoni rapporti con la Russia; la Turchia è uno dei maggiori importatori di gas russo e anche di armi. I rapporti sono sempre stati piuttosto distesi, anche se in contrapposizione in Libia e in Siria: una contrapposizione controllata. Continua a essere un interlocutore corteggiato, anche se personalmente auspico che l’Unione Europea e soprattutto la Francia, che sostiene la necessità di un dialogo con il Cremlino, facciano la loro parte. Per Erdogan è importante la proiezione marittima nel Mar Nero e anche nel Mediterraneo con la creazione di zone economiche esclusive: ha ambizioni egemoniche marittime e vuole sfruttare questa crisi per realizzarle”. Quanto a un eventuale intervento di Putin nel determinare il “no” di Erdogan, così la pensa la professoressa Mercuri: “Non credo che Putin sia intervenuto. Ritengo invece che la Turchia abbia deciso autonomamente di sfruttare la sua posizione per ottenere maggior spazio di manovra in teatri come Libia e Siria. E magari per avere i famosi caccia F16 americani la cui vendita è stata bloccata da tempo. Il tema su cui fa leva è uno dei temi più scontati, cioè che la Svezia sostenga i curdi in Siria che lui considera terroristi”.

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Due analisi preziose

La prima è di Giuseppe Didonna per Agi. Scrive tra l’altro Didonna: “Erdogan sa bene che con l’ingresso di Svezia e Finlandia si lancerebbe un ulteriore guanto di sfida al presidente russo Vladimir Putin. Circostanza che il leader turco vuole assolutamente evitare, deciso a mediare nella crisi in corso attraverso un’azione diplomatica che ha riportato la Turchia al centro della Nato e permesso a Erdogan di guadagnare centralità e credibilità.

Pur avendo fatto valere un canale di dialogo autonomo e indipendente con Putin, infatti, Erdogan ha mantenuto fede agli impegni Nato e garantito sostegno all’Ucraina con la ferma condanna dell’invasione russa. Sostegno non solo politico e diplomatico, ma anche militare – grazie ai droni turchi usati dall’esercito di Kiev – e umanitario, con l’accoglienza di circa 70 mila profughi ucraini, il doppio rispetto alla Gran Bretagna.

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Ankara, come richiesto dalla stessa Nato, non ha tardato a chiudere il passaggio alle navi da guerra degli stretti del Bosforo e Dardanelli che conducono al Mar Nero e ha poi chiuso il proprio spazio aereo ai voli militari russi, spezzando le rotte verso la Siria, vero e proprio fronte sud dello schieramento di forze messo in campo da Putin.

Una centralità ritrovata da parte di un Paese che vanta il secondo esercito all’interno dell’Alleanza, ma che era stato ripetutamente tacciato di aver spostato il proprio baricentro verso l’Eurasia, in particolare dopo l’acquisto del sistema di difesa missilistico russo s-400. Accuse riaffaciatesi al rifiuto di Ankara di applicare sanzioni economiche nei confronti della Russia. Tuttavia l’insistenza con cui Erdogan ha cercato e continua a cercare una mediazione, gli sforzi impiegati per far sedere allo stesso tavolo Putin e il leader ucraino Volodymyr Zelensky, hanno fatto aumentare il peso di Ankara in Occidente.

Il leader di Ankara ha messo sul tavolo la centralità del proprio Paese, non solo alla luce dell’arsenale militare della Turchia, ma anche della posizione geografica che lo rendono guardiano degli stretti che portano al Mar Nero e lo scudo del fianco est dell’Alleanza atlantica.

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Durante i mesi di marzo e aprile numerosi leader occidentali hanno parlato e incontrato Erdogan, così come ripetuti sono stati gi scambi di informazioni con il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Il riconoscimento e il plauso guadagnato non sembrano però aver fatto breccia alla Casa Bianca, la cui strategia politica e comunicativa durante tutta la crisi ucraina sono evidentemente mirate a riportare gli Stati Uniti al centro dell’Alleanza, mettendo sul piatto il peso militare degli Stati Uniti nel muro contro muro con Mosca.

Mentre le cancellerie di buona parte dell’Occidente hanno fatto la fila per incontrare e dialogare con Erdogan, negli ultimi due mesi con il presidente americano Joe Biden le comunicazioni si sono ridotte al minimo. Ora è arrivato il veto a Finlandia e Svezia, mossa destinata a non piacere alla Casa Bianca e a portare ulteriori spaccature all’interno dell’Alleanza, dove la Turchia spinge per mediare nella crisi contro quelli che “vogliono far durare questa guerra per indebolire la Russia”, come li ha chiamati il braccio diplomatico di Erdogan, il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu”. 

Comunanza di vedute tra Putin e Erdogan

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L’altro contributo è di uno dei più validi analisti dell’Ispi: Valeria Talbot.

“Al di là della cooperazione energetica ed economica – scrive Talbot –  nell’ultimo decennio ad accomunare Turchia e Russia ha contribuito anche una affinità di vedute tra le due leadership tanto sul piano politico quanto sull’evoluzione del sistema internazionale. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan condivide infatti con il suo omologo russo Vladimir Putin non solo una gestione autoritaria del potere, ancora più evidente in Turchia dopo l’introduzione del presidenzialismo nel 2018, ma anche l’idea di una transizione a un ordine mondiale multipolare come alternativa all’unipolarismo statunitense degli ultimi trent’anni. Nelle parole di Erdogan – sempre più il principale, se non unico, artefice della politica estera turca – il “mondo è più grande di cinque” -, intendendo tra le altre cose proprio l’emergere di un sistema multipolare in cui le medie potenze come la Turchia assumono un ruolo più definito e autonomo nello scacchiere internazionale.

Sul piano ideologico, un certo risentimento nei confronti dell’Occidente ha inoltre fatto da collante alla ondivaga relazione tra Ankara e Mosca che, dopo una fase di frizioni e di sanzioni seguite all’abbattimento di un jet russo da parte turca nei cieli siriani a fine 2015, si è rafforzata in seguito al tentativo di colpo di stato ai danni del presidente turco nel luglio del 2016. In quell’occasione all’immediato sostegno di Putin non è corrisposto un altrettanto pronto supporto da parte degli Stati Uniti e dei Paesi europei.

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Turchia più lontana dall’Occidente

La delusione nei confronti degli alleati occidentali – che si somma alle critiche verso quello che è stato considerato il “double standard” di Bruxelles nel processo di adesione della Turchia all’Unione europea, il sostegno statunitense alle forze curde nella lotta allo Stato islamico in Siria, la mancata estradizione di Fetullah Gulen, il predicatore islamico da decenni residente negli Stati Uniti e ritenuto responsabile del fallito golpe – ha spinto la Turchia verso una più stretta convergenza con la Russia, anche in un settore altamente sensibile come quello della difesa. Dal canto suo, Mosca ha avuto buon gioco nel cercare di attrarre Ankara nella propria sfera di influenza o quanto meno di sfilacciare le alleanze statunitensi, che nell’ambito della sicurezza e della difesa includono la Turchia in qualità di membro della Nato. Non sorprende dunque che l’acquisto del sistema di difesa missilistico S-400 dalla Russia nel 2017 abbia accresciuto le tensioni con Washington, preoccupata per le possibili interferenze russe con il sistema di difesa Nato. Ciò ha portato all’espulsione di Ankara dal programma di sviluppo degli F-35 e a sanzioni statunitensi al settore della difesa turco sulla base del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (Caatsa) del 2017, che prevede misure restrittive nei confronti di tutti i Paesi che acquistano componenti di difesa dalla Russia.

Su questo sfondo, l’antiamericanismo è cresciuto in ampi strati della società turca e di pari passo si è ridotto il sostegno nei confronti dell’Alleanza Atlantica.  D’altro canto, l’interrogativo su dove sta andando la Turchia è riecheggiato spesso negli ultimi anni al di là dell’Atlantico e a Bruxelles, dove i negoziati per l’adesione di Ankara all’Unione Europea sono bloccati da tempo. Senza dubbio il perseguimento di una autonomia strategica da parte della Turchia, accompagnato da una politica estera assertiva nel suo vicinato mediterraneo e mediorientale, è stato fonte di non pochi contrasti con gli alleati occidentali. Il cambio di amministrazione a Washington nel 2020 e il passaggio da un acquiescente Donald Trump a un più vocale Joe Biden, soprattutto in materia di rispetto dei diritti umani, ha aggiunto un ulteriore elemento di frizione con Ankara”, annota Talbot.

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Una frizione che rischia di trasformarsi in un qualcosa di più grave e lacerante. Una prospettiva che impensierisce Bruxelles come quei Paesi dell’Ue che più sono sotto ricatto di Erdogan sul fronte migranti: i Paesi euromediterranei, tra cui l’Italia, e la Germania, la più esposta sulla rotta balcanica. Il presidente turco lo sa bene, per questo alza la posta di una sua eventuale astensione sull’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato. Un’astensione che costerebbe molto all’Europa. Di certo più dei 6 miliardi di euro pagati alla Turchia per essere uno dei gendarmi del Mediterraneo.  

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