La porcata è troppo grande per non tornarci su. Quello compiuto a Madrid nei confronti dei curdi, su cui ha già ben scritto su questo portale Arturo Scotto, è molto più di un tradimento. E’ un crimine. E i responsabili sono riconoscibili nella foto di gruppo al vertice Nato.
Criminali
Sia ben chiaro. Il crimine non nasce con la guerra in Ucraina e con il do ut des con il Gendarme di Ankara per ottenere il suo via libera all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Questa è la conclusione di un crimine che inizia a consumarsi tanto tempo prima. Una data? Giugno 2017.
Ritrovo nel mio archivio, un pezzo che scrissi in quei giorni. Lo riprendo non perché mosso da un narcisismo professionale ma per non smarrire una memoria storica.
“Un silenzio tombale è calato sui Curdi. Un silenzio di morte. L’Occidente, sempre in cerca di gendarmi, generali, rais, dittatori che presidino, non importa con quali mezzi, le frontiere esterne dell’Europa, ha prima usato e poi scaricato le milizie curde che in Siria come in Iraq hanno combattuto in prima linea gli islamonazisti dell’Isis. Ed ora che in Siraq il “califfato” è stato battuto (ma non cancellato), Washington e le cancellerie europee chiudono gli occhi di fronte all’escalation militare che da due settimane vede impegnate le forze armate della Turchia nelle aree della Siria, quelle di Afrin e Mambij, dove è forte la presenza delle milizie curde siriane dell’Ypg. Asia Abdullah è la leader dei partiti d’opposizione del Rojava, una regione autonoma curda in territorio siriano. Di questa regione fa parte Afrin, oltre a Kobane e al-Qamishli, un territorio che i curdi e i loro alleati hanno liberato dall’Isis ma dove da dodici i giorni sono in corso attacchi da parte di forze di terra e aeree turche che sta provocando numerose vittime tra i civili. Asia Abdullah ha raccolto in un video la testimonianza telefonica resa nei giorni scorsi in Senato: “Qui è in atto un genocidio nell’indifferenza di tutti”’, è la sua denuncia. Non è solo l’ennesima, vergognosa pagina di un tradimento spacciato per realpolitik. La garanzia data da Donald Trump al suo omologo turco, quel Recep Tayyp Erdogan che i parlamentari della minoranza curda turca ha sbattuto in galera, assieme a centinaia di militanti e di attivisti dei diritti umani, di sospendere la fornitura di armi, leggere, ali combattenti delle Ypg, è il sintomo di una paura che unisce autocrati di diversa estrazione: che una utopia possa diventare realtà. Che un percorso di autodeterminazione, intriso di sofferenza, sangue, passaggi tragici, possa finalmente raggiungere un primo, storico obiettivo. Un sogno chiamato libertà. Una libertà che si fa Stato: il Kurdistan. Uno Stato plurale, laico, e per questo vissuto come una minaccia, non solo geopolitica, ancor più grave del “Califfato” islamico, da autocrati e teocrati che imperano nella regione, a cominciare dal “Gendarme di Ankara”, il presidente Erdogan. Nessuno ha mai regalato qualcosa al popolo curdo. Un popolo disperso in più Stati, minoranza nel migliore dei casi mal tollerata e più spesso repressa brutalmente, ieri da Saddam Hussein oggi da Erdogan. Un popolo ancora senza Stato ma con una forte, radicata, identità nazionale. Sono state anzitutto le milizie curde a combattere a Mosul, a Raqqa, come hanno fatto eroicamente a Khobane, contro gli oscurantisti tagliagole al soldo di Abu Bakr al-Baghdadi. E mentre combattono (le donne in prima linea) i curdi costruiscono le fondamenta di una entità statuale o comunque di istituzioni politiche che non discriminano in base all’etnia o alla fede professata. Il loro è un pluralismo reale, nel quale la diversità è vissuta come ricchezza e non come minaccia. Annota Adriano Sofri, profondo conoscitore della realtà curda: “La Turchia preferisce un Kurdistan formalmente iracheno che ritiene di poter controllare più o meno come un protettorato, specialmente nella sua parte dominata dal Pdk del presidente Barzani (la capitale Erbil e Dohuk). L’indipendenza dall’Iraq, nonostante tutte le assicurazioni del Krg di non voler interferire col destino delle minoranze curde in altri Stati, offrirebbe un esempio contagioso nel sud-est turco, dove si combatte una micidiale guerra civile. Ed è difficile pensare che uno stato curdo indipendente possa tollerare dentro le proprie frontiere le incursioni militari, per cielo e per terra, che l’esercito turco compie regolarmente a caccia del Pkk. Si oppone al referendum anche l’Iran, che a sua volta ha mire ingorde su Kirkuk e sulla sua provincia, in cui sono aperti da tempo focolai di scontri fra milizie sciite e peshmerga. La contrarietà di Baghdad è ovvia e da sempre esplicitamente dichiarata. L’argomento, usuale in questi casi – annota ancora Sofri – è che il Kurdistan non può decidere da solo e che la sua indipendenza andrebbe caso mai sottoposta al pronunciamento dell’intero Iraq. All’inizio dell’offensiva congiunta per Mosul un patto più o meno definito aveva riconosciuto ai curdi i territori, numerosi, conquistati dai peshmerga dopo l’avanzata dell’Isis nell’estate del 2014; la contropartita tacita, per il primo ministro iracheno Abadi, sarebbe stata la rinuncia curda alla secessione. Ambedue giocavano sull’equivoco, che ora si è sciolto…. Si può immaginare che cosa voglia dire votare per referendum l’indipendenza da Baghdad quando da Ankara si bombarda metodicamente dentro i confini del Krg. E nel Rojava siriano sono state colpite massicciamente le basi e uccisi militanti che tengono la prima fila della guerra all’Isis. Molte sono le guerre che si preparano a succedere alla caduta di Mosul e Raqqa. Alcune hanno fretta e non si rassegnano ad aspettare”. E i curdi hanno deciso di accelerare. Pagandone il prezzo. “ Quello che è chiaro – annota ancora Sofri – è che nel più vasto Medio Oriente ogni potenza regionale si arroga il diritto di attaccare militarmente il suo nemico prediletto senza accettare alcuna limitazione nel diritto internazionale né in calcoli di forze, e tantomeno nel famoso rispetto dei confini ufficiali. Le potenze internazionali fanno lo stesso, senza chiedere permesso lo sbrigativo Putin, in una incresciosa impotenza gli Stati Uniti, non per una maggiore soggezione alla legge ma per la grottesca assenza di scelta politica. “Il tema dell’indipendenza ha ottenuto un enorme risonanza dentro e fuori l’Iraq, e per quanto ci siano divergenze politiche interne, i curdi sono tutti concordi sulla questione dell’autodeterminazione. La volontà dei partiti curdi di livellare le divergenze sembra un chiaro segnale verso il cambiamento e l’indipendenza è diventata una causa comune, non più portata avanti da un solo partito, ma da tutti i curdi congiuntamente”, sottolinea Shoresh Darwish, giornalista e scrittore siriano. “Insomma – aggiunge – la cartina del Kurdistan è quasi completa e la mobilitazione curda non si configura più solo come mero mezzo di pressione sul governo di Baghdad, ma come una realtà capace di aspirare ad un referendum per una causa reale”. E sì che Erdogan aveva pure provato a “comprare” i curdi siriani dagli Stati Uniti e anche un posto al sole nell’assedio di Raqqa. Annota in proposito Alberto Negri, autorevole analista di geopolitica oltreché tra i più seri inviati di guerra che chi scrive ha conosciuto: “Per dimostrare la sua buona volontà ha persino annunciato, mentre il segretario di Stato Usa Rex Tillerson arrivava ad Ankara (31 marzo scorso 2017) , che l’operazione militare turca nel Nord della Siria, “Scudo dell’Eufrate”, era finita. Lanciata nell’agosto scorso nominalmente contro il Califfato, l’operazione aveva dimostrato il vero obiettivo della Turchia: colpire i curdi e allontanare la possibilità che si creasse ai suoi confini un’enclave irredentista, il peggiore incubo strategico di Ankara. Ma gli americani non hanno abboccato: i curdi siriani restano, per il momento, i loro alleati nella lotta all’Isis e nell’assedio di Raqqa, la capitale di al-Baghdadi…”. I curdi, il popolo più grande al mondo senza uno Stato. Repressi ma mai domi. Sono le milizie dell’Ypg ad essere accorse per prime a difesa dei yazidi sterminati dai nazi-islamisti dell’Isis. Sono loro, i curdi in armi ad essersi opposti per primi all’avanzata del califfato in Iraq e a condurre l’assedio alla “capitale” siriana del Califfato, Raqqa. Nel nord della Siria, l’obiettivo è quello di “creare un sistema sociale autonomo”, come ha detto all’agenzia di stampa curda Firat, Nesrin Abdullah, comandante dell’unità femminile delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg), che in questi mesi hanno portato avanti una dura lotta contro il Califfato Eppure, per Erdogan restano il nemico principale, ancor più di Bashar al-Assad. E ciò che spaventa gli autocrati e ai teocrati mediorientali non è la forza militare dei curdi (poca cosa rispetto all’esercito turco, il secondo, dopo quello americano, quanto a dimensioni in ambito Nato) ma la capacità attrattiva del modello politico e istituzionale che propugnano: un Confederalismo democratico che ridefinisca in termini di autonomia (in particolare in Turchia e in Siria) gli Stati centralistici ed etnocentrici. In un Grande Medio Oriente segnato da una deriva integralista o da controrivoluzioni militari, il “modello curdo” va in controtendenza. Perché si ispira all’idea che più spaventa califfi, sultani, teocrati e generali: l’idea della democrazia. Quanto ad Erdogan, il suo obiettivo strategico va oltre la resa dei conti finale con i curdi in Siraq: essere al tavolo, e in prima fila, di una “Jalta mediorientale”: uno dei “dominus”, assieme a Putin, Trump, Macron. Erdogan sfrutta le debolezze altrui per rafforzare le mire turche. Sa che l’America, al di là dei bellicosi “cinguettiii” di Trump, non intende mostrare i muscoli in Medio Oriente, facendosi garante degli interessi dei due suoi più fedeli alleati nella regione: Israele e Arabia Saudita. Ecco allora il Paese che detiene il secondo esercito della Nato, dopo quello statunitense, comprare sistemi missilistici dalla Russia, stringere un patto con l’Iran (lo “Stato del terrore” nella dottrina Trump sulla sicurezza nazionale), e garantire protezione al governo sciita di Baghdad contro i disegni indipendentisti nel Kurdistan iracheno. Nel far questo, Erdogan dà sostanza ai disegni imperiali neo-ottomani, partendo proprio dalla Siria, e dal “patto di Sochi” stretto con Putin, oggi per mettere sotto tutela Bashar al-Assad e in un futuro prossimo gestire la sua uscita di scena. Per Mosca, infine, il via libera all’attacco turco è un modo per svelare l’inconsistenza del bluff americano. Mostrare al mondo che l’alleato scelto da Washington è tranquillamente attaccabileè una grande vittoria russa, ottenuta peraltro senza sparare un solo colpo. L’asse Putin-Erdogan (con l’Iran come terzo partner, ma a “geometria” politica variabile) tiene e dà le carte in Medio Oriente. E’ l’incontro tra due ambizioni imperiali. Il passato che si fa futuro”.
D’allora sono passati cinque anni. E il crimine si è perpetrato.
Come annota Davide Grasso su Micromega.net: “[…] Ben al di là dell’inestimabile protezione che Svezia e Finlandia hanno fornito finora ad attivisti e richiedenti asilo curdi, ciò che Erdogan sta negoziando è un’ulteriore via libera della Nato a operazioni militari nella Siria del nord-est, dove gli Stati Uniti hanno truppe e dove Erdogan intende distruggere le conquiste democratiche siriane e irachene, autoctone e secolari, promosse dal Pyd e dal Pkk in questi anni. È grave semmai che Ue e Usa, per tutelare le relazioni con il presidente turco, non abbiano ancora espunto il Pkk da una lista alquanto arbitraria delle organizzazioni terroristiche, visto che cooperano in Siria con il Pyd che è un partito del tutto analogo, unico in grado di resistere militarmente e politicamente al jihadismo più estremo, nell’area dove da dieci anni questo tenta ogni volta di rialzare la testa (e visto che Erdogan, a Idlib, coopera con Hayat Tahrir as-Sham, alias Al-Qaeda). […]La Turchia è un paese plurale, con una società ricca di pulsioni volte a una forma democratica del moderno. Con le sue purghe e la sua violenza il presidente ha però trasformato il paese in una prigione votata alla rifondazione legalizzata del jihad globale, disciplinato politicamente da una guida statale che siede nel Consiglio d’Europa e in quello della Nato. L’esercito turco tiene sotto il suo comando in Siria bande criminali come Ahrar al-Sharqiya e Failaq Al-Majd, che commettono crimini contro l’umanità e in cui militano ex miliziani di Daesh e Al-Qaeda.
Tali o simili jihadisti siriani sono stati mandati da Ankara a combattere in Libia, in Azerbaijan e persino in Kashmir. La legittimazione globale e comunicativa di un regresso globale del e nel mondo islamico, operata da Erdogan, non è meno pericolosa di altri fenomeni. Passa anche per le moschee che il governo turco finanzia in Europa: spesso centrali operative, ideologiche e propagandistiche di una Fratellanza musulmana sempre attiva nelle nostre società, come in Medio Oriente, per marginalizzare le musulmane e i musulmani che non condividono le rappresentazioni dell’islam proprie dei governi turco e qatariota.
Il jihad globale istituzionalizzato ordito oggi dall’abile Erdogan, predicato o armato che sia, si è formato sulle ceneri, ma anche in rapporto, con quello clandestino lanciato a suo tempo da Bin Laden. Questo non incontra gli interessi strategici e fondamentali dei mediorientali e degli europei che intendano vivere in pace, libertà e nel rispetto reciproco. Questi interessi non sono negoziabili perché sono tutt’uno con ciò che motiva concretamente l’avversione all’espansionismo coloniale di Putin in Ucraina, alle violenze israeliane in Palestina e che in passato ha motivato la giusta opposizione all’invasione angloamericana dell’Iraq. Permettere l’imprigionamento di militanti e combattenti per la libertà, e nuove guerre d’invasione, per accontentare Erdogan rende ipocrita la giustificazione usata per l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato: l’avversità alle invasioni e la deterrenza della loro possibilità.
Pensare che la sproporzione di interesse strategico tra Europa e Medio Oriente, e tra Mare del nord e Mediterraneo, sia così ampia da giustificare capitolazioni del genere significa avere una percezione della politica e degli equilibri mondiali forse inadatta persino al Settecento. Il Partito Giustizia e Sviluppo di Erdogan non controlla, come Russia Unita di Putin, una potenza nucleare, né gran parte del capitale fossile; ma ne controlla gran parte del transito, e ha aspirazioni all’egemonia ideologica sull’intero mondo musulmano, dal Marocco all’Afghanistan. Credere che vendere al despota i suoi dissidenti e oppositori ci conduca alla pace è miope. Abbiamo interesse a vivere bene con gli altri popoli, che devono vivere bene a loro volta; questo ci permetterebbe di effettuare commerci più stabili, sicuri e giusti con le altre terre. Il “prezzo” da pagare per questo non è consegnare i curdi, ma aiutarli nell’ottica di favorire un cambiamento politico interno alla Turchia”.
Così Grasso. Un’analisi ineccepibile. Che inchioda i “criminali di Madrid”.