Israele, così stanno uccidendo la democrazia: il fascismo dentro casa

Ad avanzarla è una leggenda vivente dell’intelligence d’Israele, ossia lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano. Il suo nome è Ami Ayalon

Israele, così stanno uccidendo la democrazia: il fascismo dentro casa
Repressione in Israele
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Luglio 2022 - 18.49


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Quella che segue è una denuncia senza precedenti. Perché ad avanzarla è una leggenda vivente dell’intelligence d’Israele,  l’uomo che ha guidato alcune delle azioni più spettacolari nella storia dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano. Il suo nome è Ami Ayalon, ed oggi è Maggiore della Riserva. E quando parla di una minaccia mortale alla democrazia va preso molto ma molto sul serio.

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La denuncia di Ayalon

“Un viceministro  – scrive su Ami Ayalon  su Haaretz – si presenta agli studenti delle scuole superiori che stanno per essere reclutati nelle Forze di Difesa Israeliane e dice loro: “Se ci fosse un pulsante che potesse far sparire tutti gli arabi da qui e mandarli su un treno espresso per la Svizzera… io premerei quel pulsante. Se fosse stato il rabbino Meir Kahane a resuscitare dalla morte, il danno sarebbe stato relativamente limitato, perché il rabbino, che veniva dall’America, era considerato un estremista. Ma qui stiamo parlando di qualcuno che gli amici descrivono come il “sale della terra”.

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Il viceministro Matan Kahana ha avuto una carriera illustre nell’Idf: un commando in Sayeret Matkal (una forza speciale d’élite), un pilota di caccia, un tenente colonnello, e per di più ha ricevuto il premio di Cavaliere del Governo di Qualità. Una persona di tale levatura ha un’enorme influenza sul suo giovane pubblico. Quanti studenti hanno fatto un collegamento tra la visione del viceministro e i treni che hanno portato un intero popolo – bambini, donne e anziani – in un altro luogo? I suoi commenti non hanno provocato alcuno shock o scossone. Non ha visto nulla di sbagliato in ciò che ha detto e si è accontentato di scusarsi dicendo che la sua scelta di parole è stata “inappropriata”.

la Svizzera”. Molti anni fa, quando mi fu chiesto di dirigere l’agenzia di sicurezza Shin Bet dopo l’omicidio del Primo Ministro Yitzhak Rabin, cercammo di capire il processo che porta all’omicidio politico. Il trauma ci ha insegnato che le parole uccidono. I leader si rivolgono a un pubblico che segue ogni loro parola, un pubblico composto da giovani in cerca di una guida che li indirizzi nella giusta direzione, verso un percorso che dia un senso alla loro vita. Quando una figura carismatica come il Viceministro Kahana descrive la sua visione e parla del “pulsante”, la distanza tra il suo sogno e un giovane che preme quel pulsante si accorcia sempre di più. Un giovane sentirà che, premendo il pulsante, avrà realizzato il sogno di un intero popolo e certamente quello di una figura educativa ammirata.

Questo è il sentimento che hanno lasciato le parole del viceministro Kahana. Pertanto, ciò che mi preoccupa oggi, ancor più della sua folle visione, è il silenzio dei nostri leader. E il modo in cui le sue parole sono state accolte dall’establishment politico come del tutto naturali. Il Presidente non ha pensato che fosse stata superata una linea rossa. I primi ministri non lo hanno ammonito. I ministri non hanno condannato le sue parole. Le sue parole non hanno portato a un dibattito nel governo o nella Knesset. L’incubo peggiore è che Kahana non è solo. La visione del rabbino Kahane si è reincarnata in quella del pilota di caccia Kahana. Ora è il sogno di molti nella società israeliana. Un sogno che, premendo un pulsante, cancella la nostra identità così come formulata dalla Dichiarazione di Indipendenza e ignora gli impegni che abbiamo sottoscritto. Vale a dire, “lo sviluppo del Paese a beneficio di tutti i suoi abitanti… basato sulla libertà, la giustizia e la pace come previsto dai profeti di Israele… la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici per tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla religione, dalla razza o dal sesso”.

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Troppo pochi in Israele vedono l’orrore che ci attende lungo la strada. Premere il pulsante che cancella i diritti delle minoranze in Israele ci porterà al pulsante successivo, quello che fa sparire gli arabi su un “treno espresso per la Svizzera”. Chi dovrebbe occuparsi del pericolo insito nelle parole? Con la lezione che non è stata imparata dopo l’omicidio di Rabin? Il sistema giudiziario, a quanto pare, non è stato progettato per questa missione. Il diritto penale rende il reato di incitamento quasi impossibile da provare in tribunale. È compito dei leader israeliani, di destra e di sinistra, religiosi e laici, assumersi questa missione. Il palcoscenico mediatico è aperto per loro, e devono ripetere più e più volte al pubblico che li segue, e soprattutto alle giovani generazioni, che la violenza verso una persona o un gruppo è illegittima, indipendentemente dallo scopo ideologico che si intende perseguire. Allora non comprendevano il potere omicida delle parole, ma oggi devono capire che il loro status elevato comporta una pesante responsabilità.

I leader con il tipo di influenza esercitata dal viceministro Kahana possono frenare questo terribile deterioramento. Ma Kahana non sceglie le parole e condivide con i suoi studenti la sua visione di un mondo in cui, premendo un pulsante, milioni di uomini, donne, bambini e anziani scompariranno. Si rifiuta di capire che ci sono studenti che interpreteranno le sue parole come una licenza per realizzare la sua visione”.

Così Ayalon. 

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Quel vento nero

Gideon Levy, icona vivente del giornalismo “radical” israeliano, annota a sua volta: “La cosa più spaventosa e deprimente che è successa a Gerusalemme di recente non sono i pogrom contro i palestinesi. Questi naturalmente sono infinitamente spaventosi e deprimenti, ma la cosa più spaventosa e deprimente è qualcosa di nuovo sull’identità degli assalitori. Abbiamo già avuto le falangi Lehava, le milizie La Familia e i teppisti delle colline, e ora si sono aggiunti gli ultraortodossi. C’è un nuovo bullo nel quartiere e fanno più paura di tutti gli altri. I rivoltosi in shtreimel potrebbero spazzare Israele in luoghi fascisti che non ha mai conosciuto, grazie al loro enorme potenziale elettorale. Gli ultraortodossi sono le riserve del movimento neonazista che si sta sviluppando in Israele, e promettono un grande futuro ai parlamentari Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.

Senza gli ultraortodossi, questi due sono una semplice curiosità. Grazie agli ultraortodossi, il loro partito potrebbe diventare l’Adf per la Germania o i Democratici svedesi di Israele, ma molto più estremo di questi due partiti di estrema destra in Europa occidentale. Le camicie brune potrebbero cambiare il loro colore in bianco. Questo è spaventoso perché gli ultraortodossi sono molti, ed è deprimente perché una volta c’era una diversa maggioranza ultraortodossa che un tempo rispettavo e conoscevo, vittima di persecuzione e ostracismo. Il peccato originale è stata la creazione di enormi insediamenti ultraortodossi negli anni ’90 che sono diventati i più grandi insediamenti in Cisgiordania, molto più grandi dei loro predecessori ideologici. Quella che era iniziata come una soluzione abitativa a basso costo, libera da convinzioni politiche, è diventata nazionalismo estremo. Con una velocità terrificante, coloro che fino a una generazione fa erano considerati non sionisti o colombe politiche con leader come il rabbino Elazar Shach e il rabbino Ovadia Yosef sono diventati portatori della bandiera del fascismo israeliano.

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Dove sono i giorni in cui bruciavano i cassonetti della spazzatura solo per la profanazione del Sabbath, e chi avrebbe pensato che ci sarebbero mancati quei giorni? Dove sono i rabbini che dicevano “non c’è nessun ostacolo a cedere parti della Terra d’Israele” e “cedere [queste terre] per la pace non è cedere”, come disse il rabbino Shach.

Il timore si è avverato: le opinioni degli ultraortodossi sono state decise dal loro luogo di residenza. Hanno dimostrato che è impossibile vivere su una terra palestinese rubata senza odiarne i proprietari. Si stabilirono nella Cisgiordania palestinese e si integrarono meravigliosamente nel paesaggio di apartheid che li circondava. Sono diventati odiatori degli arabi e sostenitori dell’estrema destra. La strada da lì alla partecipazione ai pogrom è stata breve. Nelle elezioni del mese scorso lo hanno espresso chiaramente. L’alleanza del sionismo religioso è diventata il terzo partito della loro comunità. A Gerusalemme ha ottenuto il 9% dei voti e a Betar Ilit il 10%, sei volte più del Likud. A Bnei Brak e a Modi’in Ilit, la più grande città ebraica dei territori, è il terzo partito. Con riserve come queste, un giorno avremo un kahanista come primo ministro; metà di Israele considera già Naftali Bennett un candidato legittimo e addirittura lo desidera. È vero, solo poche centinaia di ultraortodossi hanno partecipato ai pogrom, ma i rabbini non hanno fatto nulla per fermarli, forse perché sapevano che il genio era uscito dalla bottiglia. Ora il numero crescerà. I giovani ultraortodossi potrebbero cambiare le regole del gioco. Le immagini degli ultimi giorni a Gerusalemme sono terrificanti. Lasciate da parte la copertura mediatica ‘corretta’, che cerca di mantenere “l’equilibrio” quando da una parte c’è l’occupazione, che non ha equilibrio. Lasciate da parte le dichiarazioni scioccanti del ministro della pubblica sicurezza e dei comandanti della polizia che hanno condannato solo la violenza palestinese. Questa violenza è il più giustificato e contenuto atto di resistenza contro l’ingiustizia e altre violenze, e viene come risposta diretta ai continui abusi della polizia contro i palestinesi a Gerusalemme e ai pogrom contro di loro da parte degli estremisti di estrema destra. Non fate errori: Gli attacchi di massa contro gli arabi a Gerusalemme sono forieri del neonazismo israeliano. Marce intimidatorie, pestaggi, incendi dolosi, saccheggi e richieste di morte sono esattamente l’aspetto del neonazismo. Dio ci salvi dai suoi emissari ultraortodossi che si sono uniti alla mischia”.

Gli Stati Uniti hanno espresso ‘profonda preoccupazione’ per ‘l’escalation della violenza a Gerusalemme’, condannando i discorsi di “odio”. Il portavoce della diplomazia Usa, Ned Price, ha chiesto ‘calma e unità’, sollecitando le autorità ‘a garantire la sicurezza e i diritti di tutti a Gerusalemme. I discorsi di manifestanti estremisti che intonano slogan di odio violento devono essere fermamente respinti”. 

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Fin qui Levy.

Etnocrazia al potere

Questa sconvolgente deriva razzista è il portato di qualcosa di profondo, che ha trasformato una democrazia in etnocrazia. Una etnocrazia aggressiva, militarizzata. Che non fa prigionieri.  

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L’etnocrazia è, in primo luogo, la sanzione della sconfitta del sionismo e il trionfo del revisionismo di Zeev Jabotinsky, non a caso il punto di riferimento ideologico della destra nazionalista israeliana. La “Questione israeliana” ingloba ma non si esaurisce nella vicenda palestinese e né può avere come unica chiave di lettura quella della sicurezza minacciata. Certo, quando il gioco si fa duro, i falchi etnocratici tirano fuori il loro evergreen: siamo un Paese circondato da nemici, gli arabi possono permettersi di perdere mille battaglie ma resteranno sempre in piedi. Israele, no. Se perde una guerra, rischia di scomparire dalla faccia della terra. Ma ridurre i processi che negli ultimi cinquant’anni hanno trasformato profondamente, radicalmente Israele, al solo dilemma pace/guerra, si sminuisce la portata di una “questione” che rimarrà in vita, ne sono convinto, anche il giorno in cui la “questione palestinese” avrà finalmente una soluzione politica. Se oggi il futuro d’Israele si gioca solo a destra, non è perché c’è l’Iran, Hamas, Hezbollah. O, quanto meno, non è solo perché la destra vince se impone in cima all’agenda politica nazionale il tema della sicurezza e di come far fronte alle minacce, vere o presunte, che sono sempre, in questa narrazione, mortali. Prima che nelle urne, la vittoria della destra etnocratica in Israele, è avvenuta sul piano culturale, sull’aver plasmato la psicologia di una Nazione a propria immagine e somiglianza. La destra ha vinto perché ha fatto prevalere, nella coscienza collettiva, Eretz Israel, la Terra d’Israele, su Medinat Israel, lo Stato d’Israele. In questa visione, la Sacra Terra, proprio perché è tale, non è materia negoziabile e chi osa farlo finisce per essere un traditore che merita la morte. Questo, un traditore sacrilego, è stato Yitzhak Rabin per la destra israeliana che ha armato ideologicamente la mano del giovane zelota, Yigal Amir, che mise fine alla vita del premier-generale che aveva osato stringere la mano al “capo dei criminali palestinesi”, Yasser Arafat, riconoscendo nel nemico di una vita, un interlocutore di pace. Israele ha ottenuto successi straordinari in svariati campi dell’agire umano. E’ all’avanguardia mondiale quanto a start up, ha insegnato al mondo come rendere feconda anche la terra desertica e portato a compimento importanti scoperte nel campo della scienza, della medicina, dell’innovazione scientifica. Ma la modernizzazione sociale ed economica non ha mai interagito con la grande questione identitaria. Su questo terreno, la tradizione ha vinto e non ha fatto prigionieri. I Palestinesi, in questo, sono un incidente di percorso, con cui occorre fare i conti ma che mai hanno rappresentato un elemento di riflessione su se stesso, su Israele. In una conversazione non più recente, ma straordinariamente attuale, avuta con David Grossman, il grande scrittore israeliano mi disse di aver maturato la convinzione che per Israele, il popolo israeliano, sarebbe stato meno doloroso cedere dei territori (occupati) piuttosto che sottoporre ad una revisione critica la propria storia, a partire dalla nascita dello Stato d’Israele, perché questa revisione avrebbe dovuto portare al riconoscimento dell’altro da sé, come popolo, con una propria identità nazionale, con la propria storia che interrogavano la storia d’Israele. Così è. L’etnocrazia, a ben vedere, è l’altra faccia del regime di apartheid instaurato di fatto nei Territori palestinesi occupati. L’etnocrazia crea identità, definisce una visione del ruolo del popolo ebraico nel mondo, indica una Missione da compiere. La “Questione israeliana” non ha nulla di difensivo. Essa, a ben vedere, è una declinazione di quel sovranismo nazionalista che segna il presente, ipotecando il futuro. Un sovranismo suprematista, che si fonda su una identità razziale ritenuta superiore, su una visione messianica del ruolo del popolo eletto. I padri fondatori d’Israele si sono battuti per realizzare il sogno di uno Stato per gli ebrei. La destra revisionista ha imposto lo Stato degliebrei. Non è una differenza semantica

L’’ingresso dei fascisti alla Knesset ne è il frutto avvelenato. La caccia agli arabi una conferma.

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