La storia di Ibrahim Al-Nabulsi, il "destino" di un martire

Non era il pane che gli mancava, Ma come tanti ragazzi di Palestina aveva il destino segnato: quello di diventare un “martire”. E’ la storia di Ibrahim Al-Nabulsi.

La storia di Ibrahim Al-Nabulsi, il "destino" di un martire
Palestina
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Settembre 2022 - 19.30


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Non era un disperato costretto a vivere alla giornata. Non era il pane che gli mancava, Ma come tanti ragazzi di Palestina aveva il destino segnato: quello di diventare un “martire”. E’ la storia di Ibrahim Al-Nabulsi.

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Destino segnato

A raccontarne la storia, su Haaretz, è Hanin Majadli. 

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“La scorsa settimana sul quotidiano Yedioth Ahronoth, Ariella Ringel Hoffman ha scritto un articolo che iniziava con la storia di una bella casa in pietra su una piccola collina a Kfar Yona, a nord-est di Tel Aviv. Secondo la storia, la casa, che ora è stata recintata e dichiarata proprietà di conservazione storica, apparteneva a una famiglia benestante di Nablus, la famiglia Al-Nabulsi. Il padre della famiglia, Hajj Nimr Al-Nabulsi, costruì la casa per il suo amato figlio. Secondo l’editorialista dello Yedioth, la costruzione della casa è stata resa possibile dagli ottimi rapporti della famiglia palestinese con i residenti ebrei di Kfar Yona prima del 1948. Ma ora facciamo un salto in avanti fino all’agosto del 2022. Un giovane di nome Ibrahim Al-Nabulsi, non affiliato ad alcuna organizzazione, è stato dichiarato terrorista ricercato. È stato ucciso dalle truppe israeliane a Nablus. Ringel-Hoffman si chiede ingenuamente cosa sia cambiato tra il 1948 e il presente. Si chiede anche quali siano le motivazioni di Nabulsi e dei suoi amici “per rinfoltire ogni volta i ranghi”. Il riferimento è alle file dei palestinesi morti. (L’autrice non dice come e perché i ranghi si svuotino di volta in volta, ma non importa).

Il suo stupore cresce di fronte al legame che attribuisce – senza alcun fondamento – tra gli Al-Nabulsi del 2022 e gli Al-Nabulsi del 1948. Come se non avesse mai sentito parlare della Nakba o dell’occupazione, non le è chiaro cosa sia successo nel frattempo che ha portato un membro della generazione più giovane a diventare un ricercato e a porre fine alla sua vita, anche se non viveva ai margini della società.
Ma cos’è la vita per un giovane palestinese in una realtà di occupazione e apartheid? Per un giovane nato in mezzo all’intifada e alle incursioni militari, che ha visto parenti, vicini e amici arrestati e imprigionati – e peggio – da Israele. Era un giovane che viveva in un cantone della Cisgiordania, circondato da soldati che facevano ripetutamente irruzione in quello che doveva essere il suo spazio sicuro, la sua casa. Cosa potrebbe spingerlo a voler morire, anche dopo che il suo presunto bisnonno ha sperimentato la coesistenza con gli ebrei?

Nabulsi è nato nel 2003, un anno dopo l’operazione Defensive Shield dell’esercito israeliano in Cisgiordania e un anno prima di un’altra operazione dell’esercito a Nablus, al culmine della seconda intifada. La sua vita non era una vita. I carri armati israeliani avevano invaso la sua città, seminando paura e distruzione, oltre a lasciarsi dietro dei cadaveri. È questa la coesistenza? Sono relazioni eccellenti? Ringel-Hoffman è sorpresa che i giovani palestinesi in Cisgiordania crescano senza futuro, senza speranza e senza sogni. A suo avviso, il contrasto tra le vite della giovane generazione di palestinesi e l’uomo che lei sostiene essere l’antenato di Al-Nabulsi racchiude “la storia dell’intero confronto israelo-palestinese, con la sua prospettiva di vite condivise e la grande opportunità perduta di cui le due parti sono partner”. Se le due parti sono partner, perché non scrive una sola parola su ciò che è realmente cambiato dal 1948? Che fine hanno fatto gli arabi e le loro “eccellenti relazioni” con i residenti ebrei? Semplicemente non sono tornati nelle belle case che avevano costruito senza motivo? L’editorialista pensa che l’attuale generazione di Al-Nabulsi debba essere disperata o emarginata per prendere le armi, ma vivere a Nablus nel 2022 è per definizione essere emarginati. Nabulsi aveva 19 anni quando è morto. Non si sa cosa sognasse, da bambino, di fare da grande. È probabile che essere un ricercato ed essere ucciso dai soldati israeliani non fosse in cima alla lista delle sue aspirazioni, ma l’occupazione israeliana, oppressiva e umiliante, gli ha spianato la strada per diventare un martire”.

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Così Majadli.

“Sarei entrato in un’organizzazione terroristica.”
–risposta di  Ehud Barak a Gideon Levy, giornalista del quotidiano Haaretz, quando chiese a Barak che cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese.

Esisti se terrorizzi

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 In quella frase del militare più decorato nella storia d’Israele, diventato poi Primo ministro, c’è l’essenza di una tragedia irrisolvibile. Una tragedia che chiama in causa tutti. E quando intendo “tutti”, penso alla comunità internazionale, certo, ma anche a chi fa informazione. I palestinesi fanno notizia solo se terrorizzano, altrimenti non esistono. Semplicemente. O sono “shahid” (martiri) o entrano nel grande esercito dei dannati della terra dimenticati, sepolti nell’oblio. Chi scrive ha iniziato a seguire l’eterno conflitto in Terrasanta nel dicembre del 1987, allora lavoravo a Rinascita, quando ebbe inizio la prima Intifada, la “rivolta delle pietre”, una ribellione di popolo che impose la questione palestinese di nuovo al centro dei riflettori internazionali. D’allora sono passati 35 anni. Ho perso il conto delle volte, tante, in cui sono stato nei Territori, nella Palestina occupata. Ciò che mi è rimasto sempre impresso nella memoria, e nel cuore, è soprattutto l’inferno di Gaza. Ho visitato la Striscia prima e dopo l’inizio dell’embargo imposto da Israele, quindici anni fa e mai interrotto. Non potrò mai dimenticare, mai, lo sguardo di quei bambini a cui veniva rubata l’infanzia e, per molti, la vita. Lo sguardo di chi fin dal suo nascere ha conosciuto solo la violenza, gli attacchi israeliani, le case ridotte in un cumulo di macerie. Bambini che giocavano a scalare montagne di rifiuti, in strade sterrate con le fogne a cielo aperto. 

Degli errori e dei fallimenti delle fazioni palestinesi avrò scritto centinaia e centinaia di articoli, ultimi su Globalist. Non sono mai stato tenero con Hamas, Fatah, l’Autorità nazionale palestinese. Ma questo non ha mai cancellato la domanda che Gideon Levy, una delle icone del giornalismo israeliano, fece a Ehud Barak. Quella domanda me la sono posta tante volte, e la risposta è stata la stessa che il soldato più decorato nella storia d’Israele ebbe a dare. Chi entra in un campo profughi, nella Striscia o nella West Bank, si guarda intorno, raccoglie testimonianze, usa tutti i sensi umani, alla fine non può non può che giungere all’amara conclusione che l’interrogativo vero non è perché molti di quei ragazzi si sono fatti strumento di morte, ma perché non avrebbero dovuto farlo.

“Nulla di ciò che visto in Sudafrica può essere paragonato a Gaza dal punto di vista della miseria, dell’oppressione pianificata, della segregazione  e della discriminazione razziale…”.

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E ancora: “Il campo di Jabalya è il posto più spaventoso che abbia mai visto. I bambini che affollano le viuzze non lastricate, hanno negli occhi una luce che contrasta con l’espressione di tristezza e sofferenza infinita stampa sui volti degli adulti. Non esiste una rete di fognatura, il fetore dà il voltastomaco, e ovunque si volga lo sguardo si vede una massa di persone vestite di stracci…”.  Edward Said Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele (Feltrinelli)

A riportarmi su questo tema, è un articolo di qualche tempo fa su Haaretz di Gideon Levy. Duro, ma vero. Perché dice quello che gli ipocriti di cui è piena la stampa mainstream, anche di casa nostra, non hanno il coraggio neanche di pensarlo, figuratevi di scriverlo.

“ La via del terrore è l’unica via aperta ai palestinesi per combattere per il loro futuro. La via del terrore è l’unico modo per loro di ricordare a Israele, agli stati arabi e al mondo la loro esistenza. Non hanno altra via. Israele ha insegnato loro questo. Se non usano la violenza, tutti si dimenticheranno di loro.

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Questa non è una speculazione ipotetica, è stato dimostrato nella realtà, più e più volte. Quando sono tranquilli, l’interesse per la loro causa evapora e svanisce dall’agenda di Israele e del resto del mondo.

Guarda cosa succede a Gaza tra le raffiche di razzi. Chi ci presta attenzione? Chi se ne preoccupa? Tutti vogliono già dimenticare l’esistenza dei palestinesi. La gente è stanca di sentir parlare della sofferenza palestinese e il silenzio lo rende possibile. Solo quando le pallottole volano, i coltelli colpiscono e i razzi esplodono, la gente si ricorda che c’è un altro popolo con un problema terribile che deve essere risolto. La conclusione è dura e terrificante: Solo attraverso il terrorismo saranno ricordati, solo attraverso il terrorismo potranno ottenere qualcosa. Una cosa è certa: se mettono giù le armi, sono condannati a diventare i nativi americani del Medio Oriente – una minoranza dimenticata la cui causa è stata estinta per sempre.

Si può discutere sulla legittimità del terrore palestinese e sulla sua definizione: Chi uccide di più e chi è più brutale, Israele o loro. La violenza è sempre brutale e immorale: la violenza dei terroristi che sparano indiscriminatamente su passanti innocenti e la violenza in uniforme sancita dallo stato contro i palestinesi, compresi quelli innocenti, come una questione di routine. palestinesi sono stati relativamente tranquilli per mesi, mentre subivano la violenza e seppellivano i loro morti e perdevano le loro terre, le loro case e gli ultimi brandelli di dignità. E cosa hanno ottenuto in cambio? Un governo israeliano che dichiara che la questione del loro destino non sarà discussa nel prossimo futuro perché non è comodo per il governo nella sua composizione attuale.

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Poi hanno ottenuto il vertice Sde Boker. Sei ministri degli esteri che dicono loro: Il vostro destino non ci interessa. Ci sono questioni più urgenti e interessi più importanti. Cosa pensavano lì, all’hotel Kedma? Che si sarebbero fatti fotografare, avrebbero sorriso e abbracciato e visitato la tomba del fondatore di Israele, il comandante che ha supervisionato la Nakba – “Qui è dove tutto è cominciato”, come ha detto Yair Lapid – e i palestinesi avrebbero applaudito? Che i palestinesi avrebbero visto come venivano lasciati sanguinanti sul ciglio della strada e sarebbero rimasti in silenzio? Che forse si sarebbero accontentati delle caramelle colorate che il governo ha lanciato loro in onore dell’evento – 20.000 permessi di lavoro per operai di Gaza? E che dire degli altri 1.980.000 residenti che vivono sotto il blocco? Gli attacchi terroristici sono la punizione, il peccato è l’arroganza e la sensazione che nulla sia così urgente. Israele è in una situazione scomoda ora. La coalizione è sensibile. Le cose non sono mai state comode per lui. Ora c’è l’Iran e un nuovo Medio Oriente, libero dai palestinesi. Non sta funzionando. E a quanto pare non funzionerà mai. I palestinesi non hanno modo di dimostrarlo a parte sparare per le strade. Un giovane sconosciuto di Ya’bad che ha ucciso dei civili e un agente di polizia ha fatto sì che Israele lo vedesse. Non l’avrebbe fatto altrimenti.

Il terrorismo deve essere combattuto, ovviamente. Nessun paese può permettere che la sua gente viva nella paura e nel pericolo. Anche i vertici come quello di Sde Boker sono uno sviluppo incoraggiante, e il ministro degli esteri emiratino Sheikh Abdullah bin Zayed, è una persona molto impressionante, intelligente e calorosa.

Ma quando Lapid ha detto: “Qui è dove tutto è cominciato”, avrebbe anche potuto intendere che qui è dove è cominciata un’altra ondata di attacchi terroristici, un’ondata destinata a ricordare a lui e ai suoi colleghi che anche se hanno cenato con kebab di pesce su una foglia di ulivo, riso “Ben-Gurion” e pomelo a fine inverno – a sole due ore di distanza, un popolo continua a soffocare sotto la brutale e totalitaria occupazione israeliana”.

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Così Levy, icona vivente del giornalismo con la schiena dritta.

“Non ho grandi speranze per il futuro. Israele si considera in un perenne stato di guerra ed è consapevole della necessità di vincere. Si tratta di un conflitto perenne, dove periodi di violenza si alternano a momenti di tranquillità durante i quali i nemici raccolgono le loro forze e pianificano i loro attacchi”. A scriverlo sul numero del 9 aprile 2009 di Foreign Policy è Thomas E.Ricks. Il tempo non ha scalfito questa amara, tragica verità.

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