Isis, Raqqa, Idlib. L’incubo rimosso torna di attualità. Drammatica, angosciante, sanguinosa attualità.
L’Isis ha rivendicato nelle ultime ore l’attacco armato compiuto ieri contro la prigione di Raqqa, nel nord della Siria, e nel quale sono stati uccisi almeno sei miliziani curdi. Altre fonti parlano di otto uccisi. L’assalto alla prigione è fallito. Lo riferiscono i media siriani che citano il profilo Telegram dell’organo mediatico dell’Organizzazione dello Stato islamico. L’organizzazione jihadista afferma di aver ucciso sei miliziani curdi nella stazione di polizia di Raqqa, dove sono detenuti circa 200 membri dell’Isis.
Raqqa era stata dal 2014 al 2017 la ‘capitale’ del sedicente Stato islamico in Siria. Quasi un anno fa, a gennaio scorso, centinaia di miliziani curdi e dell’Isis erano morti in violenti e prolungati scontri armati durante l’assalto, portato dai jihadisti, alla prigione di Hasake, nel nord-est della Siria. Nelle prime tre settimane di dicembre 35 persone sono state uccise in Siria dall’Isis, incluso un civile: lo riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, secondo cui dall’1 al 21 dicembre sono stati uccisi, oltre all’unico civile, 34 tra militari governativi siriani, miliziani jihadisti filo-iraniani, miliziani curdi e combattenti lealisti filo-governativi siriani in varie regioni della Siria nord-orientale e orientale.
L’Isis in Siria era stato dichiarato sconfitto come entità pseudo-statale nel marzo del 2019. Da allora l’organizzazione jihadista continua a operare nelle regioni orientali e nord-orientali, lungo la valle dell’Eufrate, con cellule clandestine presenti per lo più nelle aree di Dayr az Zor e Hasake.
L’ombra del jihad non ha mai abbandonato la Siria.
Ne dà conto in un informato report per InsideOver Alberto Bellotto: “Il decennale conflitto che insanguina il Paese del Levante continua a nutrire la galassia del terrore, anche se oggi, rispetto agli anni del Califfato, i movimenti del terrore avvengono sotto traccia, tra aree “paradiso” e le sabbie desertiche che si perdono fra Siria e Iraq – annota Bellotto -. Ancora oggi, alla vigilia del 2023, la minaccia passa per le due formazioni che si contendono lo scettro della jihad globale Stato Islamico e Al Qaeda. E la Siria pare essere uno degli snodi in cui si gioca questa partita. L’ultima notizia in ordine di tempo, la morte dell’ennesimo leader dell’Isis, ha riacceso i riflettori sul pericolo delle bandiere nere, ma anche sul fatto che nel Paese la lotta al terrore non è mai finita, e che anzi ci sono ancora fazzoletti del territorio siriano che non possono dirsi liberi dal pericolo islamista.
L’Isis e l’esercito dormiente
A fine novembre le agenzie hanno battuto la notizia che il leader dell’Isis, Abu al-Hasan al-Hashimi al-Qurashi è stato ucciso in combattimento. Secondo gli Usa Abu al-Hasan sarebbe morto a metà ottobre inseguito a uno scontro tra membri dello Stato islamico e ribelli del Free Syrian Army nella zona di Daraa, un centro nel Sud del Paese nel territorio di confine tra Siria e Giordania.
La morte del leader islamista è avvenuta in concomitanza con l’annuncio di una vasta operazione anti Isis che le forze regolari di Damasco hanno lanciato nel Sud del Paese insieme a ex elementi ribelli dell’Fsa. Quasi in contemporanea canali dello Stato islamico hanno confermato la morte del leader. Per il gruppo si tratta del terzo leader ucciso nel Paese. In origine era toccato ad Abu Bakr al-Bghdadi, morto nell’ottobre 2019, poi a febbraio di quest’anno era toccato al successore Abu Ibrahim al-Qurashi. Entrambi uccisi nella provincia di Idlib, l’unica ancora fuori dal controllo delle forze di Damasco.
La guida dei taglia gole sarebbe passata ora a Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi, un nom de guerre dietro al quale ci sarebbe uno degli ultimi veterani del gruppo. Tra il 2017 e 2019 la formazione ha perso via via il controllo del grande Califfato edificato tra Siria e Iraq, ma non per questo ha smesso di essere una minaccia.
Secondo l’Annual Threat Assessment realizzato dalla United States Intelligence Community, l’entità che racchiude le 17 agenzie del governo federale che si occupano della sicurezza e che viene guidata dal Direttore dell’Intelligence nazionale, i leader dell’Isis continuano a portare avanti il progetto di creare un Califfato tra Siria e Iraq e che soprattutto negli ultimi anni stiano lavorando per ricostruire le proprie capacità, al momento logorando gli avversari e controllando porzioni di territorio limitate.
La strategia è quella di dare priorità ad attacchi contro obiettivi militari e civili così da fiaccare le forze di sicurezza di Damasco e Baghdad ma anche continuare a mantenere una certa rilevanza tra i sostenitori globali del gruppo. Questo risponderebbe a due finalità: tenere alta la tensione etnico-settaria in questi due Paesi e soprattutto resistere al ritorno di Al Qaeda sul fronte dell’attrazione di nuovi miliziani. Uno degli strumenti attraverso cui l’Isis spera e pensa di poter tornare a contare all’interno della galassia jihadista è quello del “capitale umano”. Il crollo del Califfato non ha infatti risolto il problema degli uomini fedeli all’ideale delle bandiere nere. Ad oggi almeno 10 mila combattenti sono detenuti nei territori delle forze curde appoggiate degli americani. Di questi 5 mila sono siriani, 3 mila iracheni e altri 2 mila foreign fighters.
Questo “esercito in attesa”, come l’ha definito il generale Michael E. Kurilla, comandante dello Uscentcom, è “sparpagliato” lungo una serie di carceri in tutto il Nord della Siria, in quello che è stato definito come la “più grande concentrazione di terroristi del mondo”. Questo esercito rappresenta solo una parte del problema.
A luglio un dossier delle Nazioni Unite ha messo nero su bianco come al momento la struttura decentrata del gruppo lasci margine per condurre attacchi sanguinosi, ma soprattutto che, al di là della massa di detenuti, ci sia ancora una grossa fetta delle energie jihadiste libere di muoversi attraverso il confine poroso tra Siria e Iraq. Secondo le stime ci sarebbero tra i 6mila e 10mila combattenti concentrati nelle aree rurali tra i due Paesi”.
Così il report di InsideOver.
Infanzia in trappola
Ne resoconta un recente Rapporto di Save the Children: “Un numero record di 517 donne e bambini sono stati rimpatriati quest’anno dai campi di Al Hol e Roj, nel nord-est della Siria, che ospitano gli sfollati a seguito della caduta dello Stato Islamico (Isis).
Non passa inosservato, però, che il 2021 è stato l’anno più violento mai registrato nei campi, con l’uccisione in media di più di due persone a settimana. Attacchi e violenze che continuano a mettere a rischio quasi 7.000 bambine e bambini di nazionalità straniera che rimangono ancora intrappolati nei campi.
Gli ultimi dati mostrano che quest’anno è stato rimpatriato il 60% in più di donne e bambini dai campi di Al Hol e Roj rispetto al 2021, con un aumento dell’84% rispetto al 2020. Secondo le autorità locali del Nord-Est della Siria, in totale 1.464 bambini e donne sono stati rimpatriati dal 2019, anno che segna la sconfitta territoriale dell’Isis e l’aumento di sette volte del numero di persone nei campi.
Tuttavia, pur accogliendo con favore il maggior numero di rimpatri gli sforzi in questo senso debbano essere ulteriormente sostenuti e intensificati, per salvare l’infanzia e delle bambine e dei bambini che ancora vivono all’interno dei campi. “Questi bambini sono intrappolati in condizioni disperate e messi a rischio quotidianamente, non c’è tempo da perdere. Al ritmo con cui i governi stranieri stanno procedendo, vedremo alcuni bambini diventare adulti prima di poter lasciare questi campi e tornare a casa”, ha dichiarato Matt Sugrue, direttore delle operazioni di programma di Save the Children in Siria.
Rimpatri necessari e urgenti
L’aumento dei rischi che i bambini e le donne affrontano quotidianamente in questi campi dimostra l’urgenza del loro rimpatrio. Poco più di un mese fa, nell’ultimo episodio di violenza ad Al Hol: due ragazze egiziane, di 12 e 15 anni, sono state uccise mentre il loro fratello minore è scomparso. Inoltre, negli ultimi tre mesi due bambini sarebbero stati uccisi e altri tre feriti attraversando la strada, a causa della mancanza di sicurezza.
Mentre alcuni Paesi hanno rimpatriato i bambini insieme alle loro madri, altri hanno accolto solo i bambini. Con i nostri operatori è stata condivisa la storia i Ahmad, un bambino russo di 11 anni, che mostra l’urgenza di agire nei confronti di questi bambini, fortemente influenzati dal contesto di crescita.
Ahmad vive da cinque anni con la madre e i fratelli nell’Annex di Al Hol. Il suo migliore amico era uno dei 38 bambini senza genitori rimpatriati in Russia, due mesi fa. La madre di Ahmad ha raccontato che, dopo aver visto un video, inviato al suo arrivo in Russia dal suo amico, in cui camminava in un parco e indossava abiti puliti, Ahmad le ha detto che avrebbe voluto essere orfanoanche lui per poter avere la possibilità di partire e lasciare finalmente il campo. Parole che spezzano il cuore ma che riprendono il pensiero di un bambino con il desiderio di un futuro migliore”.
Suicidi di massa
“I casi di suicidio nel nord-ovest della Siria sono in aumento – scrive su fanpage.it Gabriella Mazzeo-. Nella prima metà del 2022 sono triplicati secondo quanto riporta il Mirror che ha realizzato un reportage sulle condizioni psicologiche dei civili in seguito alla guerra. La maggior parte delle persone che sceglie di togliersi la vita lo fa assumendo le cosiddette “pillole al gas”, usate come pesticidi per preservare i raccolti. I suicidi riguardano maggiormente le donne e le ragazze, costrette spesso a matrimoni combinati per sanare le situazioni economiche dei familiari.
I casi di suicidio registrati sono aumentati nel secondo trimestre del 2022. I tentativi falliti, invece, sono passati da 106 a 213 nei primi sei mesi del 2022. Le donne rappresentano quasi la metà dei casi segnalati: le vittime sono prevalentemente ragazze sotto i 18 anni costrette a interrompere gli studi o a nozze combinate.
Particolarmente colpita dal fenomeno è Idlib, città che ospita 4 milioni di persone. Di queste, almeno la metà è costituita da sfollati in fuga da altre aree della Siria. I bombardamenti, infatti, hanno spinto a nord-ovest buona parte della popolazione del Paese che ha perso la casa e il lavoro. A Idlib vi sono circa 1.300 campi per i profughi: gli insediamenti non hanno servizi igienici adeguati e riscaldamenti per affrontare l’inverno. Secondo le stime delle Nazioni Unite, almeno 82.000 persone vivono da senzatetto.
Stando a quanto riferito al Mirror da psichiatri che lavorano nei campi profughi, le pillole al gas sono in grado di uccidere in pochi minuti e costituiscono il principale mezzo per togliersi la vita. I pesticidi sono ampiamente disponibili nei negozi del nord-ovest della Siria.
Questi prodotti restano sul mercato perché importanti per preservare i raccolti e vengono venduti indiscriminatamente anche a ragazzi e bambini, i più colpiti dalla guerra. La situazione è resa ancora più grave dalle difficoltà legate all’accesso alle cure psichiatriche che in questo momento sono in fondo alla gerarchia dei bisogni primari del Paese”.
La bomba della povertà.
Annota Dario Salvi di Asianews in una documentata e toccante analisi-testimonianza pubblicata da la Repubblica: “Oggi in Siria circa il 90% della popolazione, stando almeno ai dati ufficiali, ma la situazione sul terreno potrebbe essere ben peggiore, vive in povertà con meno di due euro al giorno. Sempre nel Paese arabo oltre 6,5 milioni di bambini necessitano di assistenza umanitaria urgente, il dato più elevato dall’inizio della guerra nel marzo 2011 e una intera generazione lotta strenuamente ogni giorno per sopravvivere. A questi si aggiungono i 12,4 milioni che sperimentano, secondo le stime Onu, una condizione quotidiana di “insicurezza alimentare”. Da qui la decisione del governo di Damasco di introdurre ulteriori misure di austerità, fra cui la riduzione temporanea delle giornate lavorative dei dipendenti pubblici e chiusure extra per le vacanze tra Natale e Capodanno in un’ottica di contenimento massimo delle spese.
I bambini che rovistano fra i rifiuti. Una foto che è anche emblema di un fenomeno nuovo, ma in continua crescita in Siria: quello delle persone, soprattutto bambini, che rovistano fra i rifiuti. Ormai è quasi consuetudine vedere gruppetti di giovanissimi cercare fra gli scarti qualcosa da poter rivendere, riutilizzare, riciclare o persino mangiare. I più fra loro sono “magri scheletrici” a conferma dei danni gravissimi provocati dalla “bomba della povertà” denunciata da tempo dalla Chiesa siriana, e che miete più vittime del conflitto. Una crisi devastante legata alla guerra civile, alle sanzioni internazionali (in primis dell’Occidente), al Caesar Act, imposto dagli Stati Uniti – vale a dire la legislazione che impone nuove sanzioni alle entità che conducono affari con il governo siriano e con le sue agenzie militari e di intelligence – ma anche figlio di una corruzione interna che arricchisce pochissimi e mette in ginocchio un’intera nazione, un tempo – nemmeno troppo lontano – simbolo di prosperità e convivenza.
“Denuncio cosa la guerra ha fatto al mio Paese”. Omar Sanadaki è un reporter e fotografo d’arte con base a Damasco. Collabora con le principali agenzie internazionali e con i suoi scatti, e i suoi reportage, ha testimoniato in questi anni gli effetti devastanti della guerra sulla popolazione. In particolare i più piccoli, come emerge da un lungo racconto della primavera scorsa sui minori ammalati di tumore. Un uomo il cui sogno, come confessava qualche tempo fa, è che “un giorno, anche fra 50 anni, le mie figlie Asli e Zoya possano mostrare le mie foto al mondo per denunciare cosa il conflitto ha fatto al nostro Paese”. Fra gli scatti più famosi quello di una bambina della Ghouta orientale, sobborgo alla periferia est di Damasco a lungo roccaforte ribelle e teatro di un lungo assedio dell’esercito governativo, trasportata addormentata all’interno della valigia dal padre in fuga”.
L’Isis che torna a colpire. L’esercito turco che prova ad annientare la resistenza curdo-siriana nel Rojava. Una tragedia umanitaria che non ha fine. Questa è la Siria oggi. Un Paese in macerie. Un popolo ignorato, in balia di una guerra per procura che dura da dodici anni. E una Comunità internazionale silente e in parte complice di una mattanza senza fine che non risparmia neanche i più indifesi: i bambini.