Per molto meno si sono fatte due guerre in Iraq. Per molto meno si sono applicate sanzioni. Per molto meno autocrati di vario genere sono stati considerati criminali di guerra e per questo perseguiti. Per molto meno, i dispensatori di sentenze e di articolesse indignate hanno chiesto che fosse fatta giustizia, che i criminali di guerra fossero perseguiti e portati davanti a un tribunale internazionale.
E se non si fosse riuscito, sarebbe andato bene pure farli fuori (Saddam, Gheddafi…). Per molto meno si è sdoganato il termine “genocidio”, si è gridato, scritto, “ora basta”. Per molto meno sono state versate lacrime di coccodrillo. Ma per Gaza, no. A Gaza, tutto è possibile. Ogni crimine è passabile.
Ospedali rasi al suolo, operatori umanitari massacrati, oltre tredicimila bambini uccisi. E chi sopravvive alle bombe, è destinato a morire di fame. Guai però a parlare di crimini contro l’umanità. Se lo fai scatta l’accusa di antisemitismo. Perché a Israele, lo Stato nato sulla tragedia indimenticabile della Shoah, tutto è consentito. Ha licenza di uccidere. Gode di una impunità internazionale senza limiti né scadenza. L’annientamento di un popolo è “diritto di difesa” dopo il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre.
Se proprio c’è da criticare, si azzarda un eccesso di legittima difesa. Massacrate, ma con moderazione. No, così non può andare. Globalist è una voce fuori dal coro. Come poche altre nel desolante panorama dell’informazione (sic) mainstream italiana. Quella che s’indigna perché quei cattivoni di studenti contestano chi difende senza un minimo di vergogna i crimini israeliani: tutti devono parlare, insorgono. Meno i palestinesi. Perché chi è morto non ha più voce. E non l’aveva neanche da vivo.
Netanyahu è un criminale di guerra, della peggior specie. Ma chi s’indigna contro quelle università che, a ragione, hanno rifiutato di partecipare a un bando ministeriale per una cooperazione scientifica con Israele dalle evidenti ricadute militari, non scriverà mai Netanyahu sei un criminale. Per costoro, direttori, editorialisti, conduttori di talk show televisivi, Israele resta l’unica democrazia in Medio Oriente.
Una “democrazia” che ha costruito un sistema di apartheid in Cisgiordania, che sta massacrando donne, bambini, operatori umanitari a Gaza. Lo scrivono e lo ripetono senza mai arrossire di vergogna. Ti urlano contro “o stai con un Paese democratico o con i terroristi stupratori di Hamas”.
Di democratico Israele ha giornalisti indipendenti, coraggiosi, dalla schiena dritta, quelli di Haaretz, che i lettori di Globalist hanno imparato a conoscere bene. Per il resto, il nulla democratico. Ma questa verità non la leggerete sulla stampa mainstream. Mai.
La destra israeliana, Netanyahu in testa, seminò odio contro Yitzhak Rabin, il primo ministro che osò aprire un percorso di pace, stringendo la mano al “nemico” di una vita: Yasser Arafat. Per aver firmato gli accordi di Oslo-Washington, Rabin fu tacciato di tradimento, nemico di Eretz Israel. E come tale meritevole di morte. La destra armò ideologicamente, e forse non solo ideologicamente, la mano di Yigal Amir, il giovane zelota assassino di Rabin.
È la destra che innalzava cartelli con Rabin in divisa da SS e con al braccio la svastica. Quella immagine si addice a Benjamin Netanyahu. Mai come oggi, vale quanto scritto da un grande intellettuale palestinese, scomparso prematuramente: Edward Said. “Non c’è tragedia più grande di essere vittime delle vittime”. È quello che accade al popolo palestinese. Da sempre.
Argomenti: israele