Prepararsi alla pace guerreggiando non mi pare sia mai stato un comportamento assennato. L’antico proverbio latino, “Si vis pacem, para bellum”, è più uno slogan di forte impatto popolare che un’autentica strategia per comporre pericolose vertenze in modo permanente. E continua a esercitare un certo fascino sulle pance molli di milioni, forse miliardi di persone.
Oggi più che mai aleggia una gran voglia di guerra. La si coglie anche qui da noi dalle chiacchiere da bar in cui, dopo che tutti gli italiani sono diventati commissari tecnici, virologi e, ultimamente, pure esperti di cerimonie di inaugurazione, l’ultima aspirazione popolare è quella di spararla grossa su come dirimere certe controversie internazionali. E combattere sembra essere la scelta inevitabile. Una scelta a cui gli slogan vuoti e, concedetemelo, sciocchi come quello di cui sopra, predispongono un numero crescente di persone. Un po’ come mettersi la mano sul cuore e scattare sull’attenti alle prime note di un inno nazionale: non è un caso che a farlo con maggior entusiasmo siano i cittadini del paese guerreggiante per eccellenza, gli Stati Uniti d’America. E noi, in questo e non in aspetti più virtuosi, ci stiamo americanizzando.
Sempre più lontani sono i moniti attivi dei reduci della Seconda guerra che, con la loro testimonianza di vita, quotidianamente raccontavano a figli e nipoti le brutture della loro giovinezza. Sempre più avvitati intorno all’ineludibilità della soluzione bellica sono i commenti della gente la cui capacità di esprimere una scelta ragionata e umana pare essere stata annichilita dal sottile lavaggio del cervello realizzato negli ultimi due decenni di governi di centrodestra tanto quanto di centrosinistra. La totale sottomissione del nostro paese alle direttive NATO e, soprattutto, alle decisioni belliciste degli USA in materia di politica internazionale ha di fatto azzerato la capacità di elaborazione di un pensiero non allineato. Senza dimenticare che, grazie a Dio, il popolo italico non è incline alla guerra. Diffondere l’idea che siamo ottimi combattenti e, per giunta, splendidamente armati è fuorviante e, come spesso succede, punta a indorare una pillola destinata a risultare amarissima.
Oggi, all’indomani della notizia davvero inquietante dell’ennesimo “assassinio di stato” mirato, ovvero l’uccisione del leader sommo di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, ci sarebbe bisogno di una pubblica levata di scudi del nostro governo e, ancor più, dell’Europa, oltre che di una presa di posizione netta.
Avrebbe dovuto farlo anche quell’America che, per voce di un Biden sempre più insicuro e di un Blinken sempre più grigio, si è limitata a esprimere l’augurio che il conflitto mediorientale non si estenda. Di fatto, un’ammissione tacita dell’accettazione assoluta della politica guerrafondaia e irrispettosa delle regole internazionali attuata dal governo di Tel Aviv.
Persino omettendo la liceità di individuare un bersaglio e assassinarlo brutalmente come se niente fosse, la tracotanza con la quale una simile operazione è stata condotta nei confini di uno stato sovrano e con il rischio di vittime collaterali – anche se un portavoce dello stato di Israele si è affrettato a congratularsi con le forze armate per il blitz brillantemente eseguito e portato a termine senza ulteriori spargimenti di sangue – la dice lunga sulla mentalità che anima quello stato. E non si tratta di un atteggiamento figlio degli eventi terribili degli ultimi mesi. La convinzione di essere al di sopra di tutto e di tutti – insomma, di essere il popolo eletto da Dio – affonda le radici in un passato molto lontano. Già ai tempi dell’operazione “Ira di Dio” voluta dal presidente Golda Meir per rappresaglia contro i terroristi palestinesi autori dell’attacco sanguinoso durante le Olimpiadi di Monaco, nel 1972, non è che si fosse prestata particolare attenzione a eventuali vittime collaterali: le operazioni furono condotte da un commando del Mossad in vari stati (tra cui Italia, Francia, Libano e Norvegia) e non mancarono errori tragici e inammissibili.
Si parlava di rappresaglia anche se, forse, sarebbe meglio definirla vendetta. La letale efficienza delle forze speciali israeliane ha assunto dimensioni proverbiali ma, a guardarci bene, bisognerebbe rivalutare il giudizio: che colpa ne aveva, per esempio, il cameriere marocchino scambiato in Norvegia per un pezzo grosso dell’organizzazione terroristica Settembre Nero e sacrificato sull’altare della propaganda internazionale?
Un’efficienza proverbiale che, alla luce dei fatti del 7 ottobre, andrebbe nuovamente ricalibrata: l’incapacità di prevenire un attacco condotto, tutto sommato, con mezzi non certo straordinari da parte di Hamas lascia intendere la vacuità degli slogan sulla necessità di armarsi e difendersi. L’incapacità dello stato di Israele di “spezzare le reni” alla resistenza palestinese e di annientarla fino alla “vittoria assoluta e finale”, motto ripetuto pervicacemente dal suo primo ministro sempre più in bilico, ribadisce un concetto ormai chiaro: con la guerra non si va da nessuna parte e l’odio seminato dall’incapacità di accogliere la pretesa a pari dignità e trattamento di un popolo – in questo caso, quello palestinese, ma la storia ce ne ha dati altri in condizioni analoghe, per esempio quello irlandese – diffonde odio destinato a moltiplicarsi in modo esponenziale. L’unico momento in cui un lumicino di speranza aveva dato al mondo l’illusione di poter fare un po’ di luce sul Medio Oriente si è avuto quando sono stati siglati gli accordi di Oslo del 1993, per quanto imperfetti e sbilanciati fossero. L’assassinio del primo ministro Rabin da parte di un israeliano ortodosso ha spento quella speranza e, con essa, quello che stava cessando di essere un semplice sogno. Da allora, le cose sono andate peggiorando sotto i colpi della realpolitik internazionale e delle spinte sempre più militariste del governo di Tel Aviv. E violenze e ritorsioni reciproche sono calate? Non mi pare. La crescita costante di questa spirale di violenza dimostra senza tema di smentite che l’interventismo militare era e resta fine a se stesso, perpetuando l’idea di una superiorità etica del popolo eletto che si manifesta in una schiacciante sperequazione militare. Se scopo delle campagne belliche come quella in corso è davvero far sparire dalla faccia della terra ogni briciola di resistenza armata palestinese, il fallimento totale del progetto è davanti agli occhi di tutti: i ragazzini sopravvissuti ai bombardamenti a tappeto su Gaza saranno i miliziani del domani.
Se, invece, davvero vogliamo la pace, la prima cosa da fare è sedersi a un tavolo e tornare al dialogo. E, per farlo, deporre le armi e ritirare i soldati. La giustificazione del diritto di uno stato, quello di Israele, alla propria sicurezza – diritto concesso e sancito da trattati di lunga data – non può continuare a trasformarsi in arbitri ripetuti che hanno finito per fare di un popolo, quello palestinese, un’entità calpestata. Tali arbitri – che oggi si possono riassumere nel numero ufficiale di quasi 40.000 vittime (in larga parte civili) a partire dal 7 ottobre 2023 – sono bombe di odio destinate a deflagrare se non oggi certamente domani o, forse, fra dieci anni. Quarantamila vittime palestinesi significano che ogni famiglia di Gaza ha visto morire almeno un parente, un amico, un conoscente o un vicino di casa e ha perso la propria dimora, il proprio lavoro, la propria sicurezza sanitaria, oltre che ogni parvenza di umana dignità.
Ironico – anzi, tristissimo – che a giustificare l’ennesimo intervento militare dell’IDF – e smettiamola una buona volta di chiamarlo così, visto che il termine “difesa” associato all’esercito con la stella di Davide appare ormai una presa per i fondelli – sia stato il razzo attribuito a Hetzbollah e caduto su una piccola comunità drusa nel nord di Israele: quel territorio era stato a suo tempo occupato da Israele. Non a caso, Netanyahu, in visita di cortesia ai familiari dei 12 ragazzini morti, non è stato accolto con grande favore da una popolazione locale comunque considerata per legge di serie B all’interno del paese. I drusi sono veri e propri reietti ininfluenti, ghettizzati, tacitati e snobbati da un regime silenzioso: agli occhi di Israele, hanno il vantaggio di non essere musulmani e lo svantaggio di essere cristiani e non ebrei.
Trascinare il mondo in una guerra di religione, in una nuova crociata che metta in contrapposizione Oriente e Occidente sotto la duplice bandiera in cui la stella di Davide campeggia al centro delle strisce e delle stelle rosse, bianche e blu è una follia pura. Ed è animata dalla convinzione israeliana di riuscire, alla fine, a manovrare sempre e comunque l’alleato americano, legato evangelicamente all’idea del popolo eletto e della terra promessa tanto quanto lo è biblicamente lo stato d’Israele. Ed è una guerra di religione che, come stiamo vedendo di giorno in giorno, troverà terreno fertile in quello spicchio di mondo che è il Medio Oriente. Insomma, non ci vuole grande stimolo per spingere un paese confessionale come l’Iran, per esempio, a far leva sulle teste calde del fanatismo islamico.
Se vogliamo la pace, iniziamo a farla. Lo chiediamo in tanti. Forse ancora non in numero sufficiente per esercitare una pressione ineluttabile e, soprattutto, non più sostenibile sui potenti del mondo. Farlo ora è un imperativo: facile immaginare chi stia per essere il prossimo inquilino della Casa Bianca, meno chiaro è che linea politica intenda abbracciare sulla questione palestinese, conoscendone le pericolose tendenze istrioniche.