Una delle piaghe del nostro tempo, che ancora non gode dell’attenzione che dovrebbe, è il revenge-porn, ossia la diffusione di immagini pornografiche senza il consenso degli interessati: foto e video privati che, di solito in seguito a una lite o alla fine di una relazione o – peggio – senza alcun reale motivo – vengono diffuse o direttamente su internet oppure tramite chat come Telegram o WhatsApp in gruppi di lavoro o tra amici che inevitabilmente contribuiscono poi alla loro divulgazione. Con conseguenze nefaste sulla vita delle vittime.
Ed è allarme soprattutto tra i minori: i casi di cronaca che vedono protagonisti ragazze e ragazzi giovanissimi si moltiplicano, soprattutto in Italia, ed è per questo che Roberto De Vita, presidente dell’Osservatorio Cyber Security dell’Eurispes, ha deciso di avviare proprio nel nostro paese un importante e ampio progetto di ricerca sul tema, per comprenderlo meglio e scoprire come combatterlo.
Qualcosa è già stato fatto: da quest’estate, infatti, il revenge-porn è un reato in Italia, grazie all’approvazione del cosiddetto ddl ‘codice rosso’ che tutela le vittime di violenza domestica, di genere e di – appunto – revenge porn, come specifica il terzo comma dell’art. 612 del Codice Penale relativo alla “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”. La pena prevista va dagli uno ai sei anni e la multa dai 5.000 ai 15.000 euro.
Ma il revenge porn è un fenomeno globale, che colpisce una persona su dieci, come ha evidenziato un recente studio statunitense, che ha messo in evidenza anche come stia rapidamente diventando una delle cause primarie di suicidio tra i giovanissimi.”Il revenge porn – afferma De Vita – è parte di un più ampio fenomeno, la pornografia non consensuale (Ncp), non necessariamente connesso a ‘vendette di relazione’ e che attiene alla condivisione/diffusione digitale, senza il consenso della persona ritratta, di immagini di carattere sessuale: immagini riprese consensualmente o volontariamente nel corso di un rapporto sessuale o di un atto sessuale ma destinate a rimanere private o ad essere condivise privatamente; immagini carpite da telecamere nascoste; immagini sottratte da dispositivi elettronici; immagini riprese nel corso di una violenza sessuale”.
Ci sono addirittura dei siti dedicati esclusivamente alla Ncp, e in generale è appurato che una buona parte della pornografia che è possibile trovare facilmente su Internet è composta da video caricati e diffusi senza il consenso delle persone coinvolte. In questo senso, il più grande aggregatore di video pornografici al mondo, PornHub, si è premunito di avvertire gli utenti quando i video cosiddetti ‘amatoriali’, ossia in cui i protagonisti non sono attori porno professionisti, sono comunque caricati da account verificati e quindi da persone – si presume – consenzienti. Ma il problema persiste, su PornHub come su tutti i siti pornografici. E colpisce, anche in questo caso, nel 90% dei casi le donne. Inoltre, secondo uno studio statunitense del 2014, il 50% delle foto intime sono corredate da nome, cognome e link ai profili social personali, il 20% da indirizzi e-mail o numeri di telefono.
“I dati riguardanti i minori – prosegue De Vita – sono ancora più preoccupanti, anche a causa del crescente uso del sexting. Uno studio condotto nel 2018 in seno alla American Medical Association ha stimato che su 110.380 partecipanti minorenni, rispettivamente il 14,8% e il 27,4% di questi aveva inviato o ricevuto sexts. Inoltre, il 12% aveva inoltrato almeno uno di questi sext senza consenso”.
In molti casi, i minori che hanno inviato le loro foto sono stati costretti o hanno ricevuto forti pressioni in tal senso. In base ad un’indagine condotta dal Massachusetts Aggression Reduction Center, al 58% degli intervistati è capitato di ricevere pressioni per inviare sexts. La maggior parte delle volte questi episodi sono avvenuti nell’ambito di rapporti stretti.
Sul piano normativo, le Filippine sono state tra i primi Stati ad emanare una legge contro il revenge porn, con l’Anti-Photo and Video Voyeurism Act of 2009. A seguire, numerosi Stati, in Europa e nel mondo, hanno disciplinato il fenomeno: tra questi figurano Israele (2014), Giappone (2014), Inghilterra e Galles (2015), Scozia (2016), Francia (2016) e 46 Stati Usa (a cui si aggiungono il District of Columbia e Guam).
“Da un punto di vista tecnico – aggunge De Vita –, è possibile avere protezione nei confronti dei fenomeni esposti con una denuncia immediata, che attivi l’assistenza di public e private enforcement, rappresentati rispettivamente da reparti specializzati delle Forze dell’ordine, come la Polizia Postale e delle Comunicazioni, e dai consulenti privati che con questi collaborano. Ad esempio, in caso di sextortion, se si è in possesso delle immagini con le quali si sta venendo ricattati, è possibile rintracciarle ed eliminarle. Peraltro, collaborando con siti come Facebook o YouTube, è possibile fornire le immagini; in tal modo, conoscendo già l’impronta del file, questi sono in grado di impedirne la pubblicazione prima ancora che avvenga”.