A ogni 25 aprile emerge la questione che la memoria della Resistenza sia retorica.
Ogni anno mi stupisco. Forse mi succede perché per me la resistenza è esperienza vissuta, incarnata, è affetto e radici intime.
E’ L’affetto per la mia terra, per le montagne.
E’ l’amore per una nonna che, nei soli 9 anni della vita che ho avuto la fortuna di avere vicino, mi raccontava storie di quanto era giovane e aiutava suo fratello Eugenio, nome di battaglia Disma e tutti i suoi amici che dovevano restare nascosti nei boschi, dormire nei buchi, lottando là sotto con le pulci e la fame e fuori con dei prepotenti in divisa, le armi e l’idea che se non la pensavi come loro e sottostavi a leggi disumane, razziste, che ti privavano della libertà di esprimere una tua idea, un tuo punto di vista, dovevi essere eliminato. E’ l’immagine della cucina di mia bisnonna, nome di battaglia Mamma, affollata di ragazzi infreddoliti che mangiano una minestra e d’improvviso devono scappare nel cuore della notte perché sta arrivando una squadra fascista. E’ un sussulto di un bussare irriverente, l’entrare in casa con prepotenza di squadre fasciste che senza chiede permesso rovistano e interrogano. E’ l’immagine di mia nonna che si mette sotto le coperte fingendosi malata, con i fucili che i ragazzi nella fretta di uscire non erano riusciti a portare via. E’ l’immagine di quella cucina di mia bisnonna, nella dispensa lo zucchero solo per gli ammalati, la farina, qualche uovo delle galline del pollaio appena fuori l’uscio e un fascista che pretende un caffè con abbondante zucchero e mia bisnonna, donna esile e dolce, che prima di portarglielo, oltre a mettere tanto del prezioso zucchero, ci sputa dentro. E’ la sensazione di una tensione continua perché prima o poi quei prepotenti potrebbero tornare. E’ l’odore di bruciato di quella cucina e di tutta la casa mentre mia nonna, mia bisnonna e lo zio erano nascosti sotto in un buco scavato tra le fondamenta, e sentivano il crepitio delle fiamme portarsi via tutto quel poco che avevano. Siamo in pieno inverno, è il 13 dicembre del ’44. E’ il suono della voce di un bambino che chiama “Rina, merda, merda, Rina merda”, che spentosi il fuoco chiama mia nonna. In contrada avevano insegnato così ai bambini, perché i fascisti quando arrivavano per le retate, chiedevano ai bambini di chiamare parenti o amici così questi uscivano e venivano catturati. Per evitare questo e non mettere in pericolo i bambini, era stato insegnato loro che se un fascista o un nazista (al mio Paese, Recoaro Terme, c’era uno dei comandi di Kesselring, quindi c’erano pure i tedeschi) chiedeva loro di chiamare qualcuno, dovevano chiamare solo con il nome, chi veniva chiamato avrebbe capito che c’erano i fascisti e non avrebbe risposto, né sarebbe uscito. Se, invece, un bambino voleva chiamare davvero un adulto, perché aveva bisogno di qualcosa, doveva dire prima la parola “merda” e poi il nome così chi veniva chiamato sapeva che era al sicuro e poteva rispondere, uscire.
La Resistenza è l’odore di fienili sempre diversi o della terra di giacigli improvvisati, l’odore di stanze di case povere ma accoglienti in cui non potevi restare per non mettere in pericolo chi ti ospitava, dove mia nonna ha dormito per cinque mesi, e vissuto solo con i vestiti che aveva addosso e l’aiuto di qualche compaesano e dei compagni di lotta.
Per me la Resistenza è il rumore di uno sparo, quello della pistola di Armonica, il migliore amico di mia nonna, forse tradito da qualcuno, forse dalla troppa stanchezza, dato che talvolta non dormivano per giorni. Quella mattina i partigiani erano sparpagliati per vari fienili di una contrada, avvisati della retata in arrivo, si affrettarono a partire tutti. Armonica si svegliò con difficoltà e tardò qualche minuto a partire dal fienile dove si era nascosto. Quando cercò di scappare, i fascisti gli erano alle calcagna, i compagni già arrivati al bosco lo videro lontano dietro di loro, lui ancora in mezzo al prato sentiva il sibilo delle pallottole della squadra fischiargli vicino, il bosco troppo lontano ancora. Sapeva troppe cose. Tirò fuori la pistola e si sparò. Aveva 25 anni.
La Resistenza è quell’immagine negli occhi diciannovenni di mia nonna che si gira un istante e dal limitare del bosco vede il compagno cadere a terra, senza vita. Era il 13 aprile del 1945.
A porre fine a tutto questo, e tanto altro che ci sarebbe da raccontare, che è stato raccontato, arriva il 25 aprile.
E’ il giorno della liberazione dalla paura, dalla prepotenza degli uomini fomentata dal Duce, un dittatore complice della strage di milioni di persone.
E’ il giorno della conquista della libertà attraverso il coraggio di lottare per un cosa grande con gesti grandi e piccoli, di battersi per la sopravvivenza di chi ti stava accanto e la salvezza del libero pensiero, una cosa talmente grande che forse continua a sfuggire oggi alla comprensione di tanti, troppi, più o meno supponenti.
Forse, si usa il termine “retorica” per sminuire il ricordo di qualcosa di irriducibile, perché dentro alla lotta di liberazione c’era una lotta per il Bene Comune portata vanti da un “Noi” autentico nelle sue radici. Quel “Noi” era composto da intellettuali e gente più semplice ma che l’esperienza della vita, di una precedente guerra, della povertà, della vicinanza del lavoro della terra, per necessità, aveva una profondità di sapere introvabile nei libri. Molti di questi erano giovani passionali, molti di solidi principi, molti coinvolti loro malgrado ma che poi hanno capito l’importanza della causa – lasciamo stare chi non l’ha capita e ha solo approfittato della situazione, era una minoranza. Molti erano persone di grande cuore, sì, perché le persone buone esistono.
L’incontro di queste parti accomunate da un sentimento di giustizia e di coraggio ha permesso la nascita di questa nostra Repubblica.
Da questo punto di vista la memoria della Resistenza non è retorica perché è il racconto dei fatti, il riconoscimento di chi ha preso posizione, ha scelto, non è qualcosa che ha a che fare solo con le mie radici intime, ha a che fare con la storia di tutti noi.
In questi tempi difficili ci viene chiesta un altro tipo di Resistenza, non paragonabile a quella che ha riguardato la lotta al Nazifascismo, ma il nostro impegno di oggi deve tener presente della condizione di allora come non mai.
A questo proposito, credo, ci sia da considerare un fattore che è stato fondamentale allora: la condivisione e la complicità di sguardi e corpi che vivevano assieme difficolta dolori e ingiustizie. Oggi siamo tutti frammentati, molti isolati, “scorporati”, chiusi nelle nostre case, immersi in mondi di contatti solo virtuali. In questo senso credo sia davvero fondamentale tenere forte un “Noi”, ma cercando anche di capire che cosa sia e che cosa può essere in assenza, per fortuna, di un nemico esterno che ne aiuta la definizione, ma anche in assenza della possibilità di incontrarci fisicamente. Allora i partigiani hanno partecipato alla lotta per costruire un futuro migliore.
In questo 25 Aprile così particolare, la proposta è di ricordare e festeggiare immaginando come possiamo lottare e partecipare, impegnarci con coraggio, perché anche il nostro futuro lo sia.
Mia nonna si chiamava Caterina, nome di battaglia Lenia, Brigata Stella, una divisione del Battaglione Garemi. Mi ha insegnato lei a cantare ‘Bella Ciao’, avevo 5 anni.