Morbosità pornografica e zero sensibilità: così Libero ha raccontato lo stupro di Rimini

L'articolo, tra l'altro, firmato da una donna, si è soffermato su tutti i dettagli, copiando sensa sensibilità gli atti giudiziari.

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Claudia Sarritzu Modifica articolo

6 Settembre 2017 - 14.46


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Se il giornalismo avesse polmoni, oggi sarebbe spirato. Morto e sepolto per sempre, trascinandosi via i sogni di chi questo mestiere lo desidera fare più di qualsiasi altra cosa, perché per lui/lei non è un lavoro ma una missione. 

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E’ morto, ucciso da chi ha permesso che un articolo dal titolo “Stupro di Rimini, i verbali dell’orrore: violenze disumane e doppia penetrazione, il racconto della turista e del trans” potesse essere pubblicato. Lo ha scritto su Libero, Roberta Catania. Le chiedo da donna a donna: perché? Te lo chiedo senza conoscerti ma convinta che se ti fermi un attimo a riflettere, in fondo al tuo cuore, sai  perfettamente che il tuo lavoro non è quello di una sceneggiatrice di film horror. Dove più dettagli raccapriccianti scrivi meglio è la riuscita del prodotto. Noi non dobbiamo disgustare o ferire la sensibilità altrui. 

Perché riportare per filo e per segno quei verbali, perché raccontare i particolari di uno stupro in modo così spietato? Era davvero necessario far sapere a tutti quello che tutti sappiamo. C’è da convincere qualcuno che la violenza sessuale è brutale, c’è da rimarcare che questa era più spietata di altre? Esistono stupri meno dolorosi? La parola stupro non è già terribile di suo? Perché violare ancora una volta il corpo di quelle due donne sbattendo le loro sofferenze su carta, anzi in rete, dove gli sputi girano più veloci e senza limiti.

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Sai perché la violenza sessuale -al contrario di altre -non si denuncia d’ufficio? Perché la vittima e la sua privacy vanno tutelate prima di tutto. Perché deve essere lei a scegliere chi deve sapere e chi no.

I romanzi, i film raccontano i dettagli, ma i giornali no. Perché non dobbiamo suscitare emozioni, smuovere le pance noi. Noi raccontiamo fatti, o cerchiamo di far riflettere.

Noi non siamo un’aula di tribunale. Non dobbiamo certo misurare aggravanti di crudeltà. Noi abbiamo un dovere: rispettare gli esseri umani. Soprattutto le vittime.

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Pensate a chi conosce queste due donne. Perché dovrebbe leggere dai giornali l’umiliazione che hanno patito? Non dovrebbero essere loro per prime a scegliere? A raccontare se vogliono, solo a chi vogliono loro.

Ci sono tante donne, le conosco, ho tenuto ferme le loro mani tremanti, che non hanno mai denunciato gli abusi per non continuare a essere violentate dalle domande degli inquirenti (non tutti delicatissimi nell’approccio con una vittima di violenza sessuale) e dagli articoli di giornale. Dopo il tuo pezzo, collega, avranno ancora più paura.

Ho letto il tuo articolo Roberta Catania, tutto, ci ho messo un po’. Mi ci sono volute pause e bicchieri d’acqua. E ho avuto l’impulso di rimettere. Quei dettagli utili a un processo non sono utili a una società che Non deve condannare uno stupro più di un altro giudicando se la “penetrazione è stata una o doppia”. Non scriviamo le trame di film porno, noi. Noi siamo ed esistiamo perché la gente sia informata. Non riceviamo stipendi per suscitare emozioni bestiali e feroci. Noi siamo la prova vivente, se facciamo bene questo mestiere, che la democrazia esiste. 

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Care protagoniste di questa vicenda terribile, vi chiedo scusa a nome di tutta la categoria. Per ogni parola scritta senza riflettere che ha inferto più ferite invece che rispetto. Per non avervi difese dalla triste pratica dell’acchiappa clic. Abbiate pietà di una professione allo sbando. E se un giorno ne avrete le forze: perdonateci, perché non tutti i giornalisti sanno quello che fanno. 

 

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