Giornalisti a Gaza: quando la pettorina con scritto 'press' diventa un bersaglio

La Fnsi scrive israeliano all'ambasciatore in Italia: "Anche a Gaza la pettorina press torni ad essere scudo, non bersaglio"

Giornalisti a Gaza: quando la pettorina con scritto 'press' diventa un bersaglio
Giornalisti uccisi a Gaza
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Gennaio 2024 - 20.24


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«Anche a Gaza la pettorina press torni ad essere scudo, non bersaglio».

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La Fnsi scrive israeliano all’ambasciatore in Italia: 

«I giornalisti italiani stanno assistendo con orrore alla morte di decine di colleghi palestinesi, vittime dei bombardamenti, delle azioni militari, delle rappresaglie che l’esercito del Suo Paese sta compiendo contro Hamas nella striscia di Gaza». Lo scrive Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi, in una lettera inviata all’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar.

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«Non giustifichiamo – prosegue la missiva – la violenza e la brutalità con le quali il 7 ottobre 2023 i terroristi di Hamas hanno attaccato lo Stato israeliano e siamo vicini alla popolazione per il dramma degli ostaggi. Allo stesso modo, però, non possiamo tacere che da quel 7 ottobre sono morti nel conflitto decine di giornalisti e operatori dei media palestinesi, che sono state distrutte redazioni e sedi delle testate giornalistiche. Nei conflitti esistono, lo sappiamo, danni collaterali, ma in questo caso reporter, operatori e media palestinesi sono diventati obiettivi di guerra e tutto ciò è inaccettabile». Costante ribadisce quindi l’appello promosso dalla Ifj a far cessare gli attacchi nei confronti degli operatori dei media e ricorda le iniziative di Reporter senza frontiere e la «forte preoccupazione» espressa dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani per il «numero elevato» di giornalisti palestinesi uccisi a Gaza.
«Dal dopoguerra – prosegue la segretaria generale Fnsi – l’Italia ha pianto giornalisti caduti per mano della mafia, uccisi negli scenari bellici, colpiti da chi si arricchisce con la guerra e i suoi traffici illegali. Ci auguriamo che le famiglie dei colleghi uccisi in Palestina possano avere giustizia».


La lettera si chiude con la richiesta all’ambasciatore di «farsi portatore nei confronti del Suo Paese, dell’appello dei giornalisti italiani, che chiedono tutela, sicurezza e rispetto per chi fa informazione. Dal nostro punto di vista reporter e operatori dei media dovrebbero avere le stesse tutele degli operatori umanitari, perché informazione e democrazia sono indissolubilmente legate nelle nostre civiltà. Anche a Gaza – scrive Costante – la pettorina “press” deve tornare ad essere uno scudo, non un bersaglio».


Per la segretaria del sindacato dei giornalisti italiani, infine, «dispiace che la Corte suprema di Israele abbia rigettato la petizione della Stampa estera per poter entrare nella Striscia di Gaza senza essere “embedded” dell’esercito israeliano. Un’informazione autonoma, verificata ed autorevole – conclude – resta, ovunque nel mondo, un bene indispensabile per democrazia e civiltà».

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Testimoni scomodi da eliminare

“Siamo di fronte al più grande crimine commesso contro il giornalismo nell’era moderna. In 100 giorni abbiamo assistito al martirio di 107 giornalisti, una media di più di un martire al giorno.

Questi giornalisti hanno sacrificato la loro vita in difesa della verità”: lo ha detto il capo del sindacato dei giornalisti, Khaled El-Balshi, durante una manifestazione organizzata al Cairo, davanti alla sede del sindacato, in occasione dei 100 giorni di guerra a Gaza. 

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Durante un sit-in, i giornalisti egiziani hanno espresso solidarietà con i palestinesi esponendo uno striscione con scritto “100 giorni di aggressione: fermare la guerra, perseguire i criminali di guerra”, immagini di palestinesi uccisi e di bare drappeggiate, sollecitando l’invio di maggiori aiuti umanitari alla Striscia di Gaza “come mezzo per contrastare i piani di Israele di sfollare gli abitanti di Gaza”. Presenti anche cartelli in sostegno del Sudafrica, che ha portato Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja con l’accusa di crimini di guerra. Durante la manifestazione, El-Balshi ha elogiato gli “sforzi eroici” dei giornalisti palestinesi sul campo e ha criticato la copertura della guerra da parte dei media globali.

Un articolo che fa onore

E’ quello a firma Giulia Della Michelina per Gariwo. La foresta dei Giusti. Fa onore per l’accuratezza e l’onestà intellettuale dell’autrice e perché a pubblicarlo è un autorevole portale dell’ebraismo italiano.

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Scrive Della Michelina: “Un uomo con elmetto e gilet blu con la scritta press (stampa) fissa gli occhi nella telecamera che lo sta inquadrando e prende un respiro profondo prima di cominciare a parlare con voce grave, eppure senza un filo di esitazione. «Il mondo intero deve guardare cosa sta accadendo qui nella Striscia di Gaza: una grande ingiustizia nei confronti di persone indifese, di civili. È ingiusto anche per noi giornalisti». L’uomo si chiama Wael al Dahdouh, è il capo della redazione di Gaza di al Jazeera e ha appena perso uno dei suoi figli, il terzo dall’inizio del conflitto. Al Dahdouh è diventato uno dei volti più noti tra i giornalisti che raccontano la guerra nella Striscia e anche suo figlio, Hamza, lavorava come reporter, prima di essere ucciso da un missile lanciato contro l’auto su cui stava viaggiando insieme a Mustafa Thuraya, anche lui deceduto in seguito all’impatto, e Hazem Rajab, rimasto ferito. Lo stesso Wael era stato ferito in un precedente attacco che ha ucciso il suo cameraman, Samer Abu Daqqa. Dal 7 ottobre 2023, dopo il tremendo attacco di Hamas, il racconto dei giornalisti locali è diventato una fonte di informazione importantissima per comprendere un conflitto che, fin dalle sue prime battute, è stato caratterizzato da uno squilibrio narrativo   che non ha risparmiato quasi nessun media mainstream dei paesi occidentali. Una retorica che non nasce certo con il 7 ottobre, ma che in questi mesi sta raggiungendo il suo apice. Ad alimentarla c’è il divieto di Israele di far entrare giornalisti internazionali nella Striscia di Gaza, se non embedded, al seguito e sotto lo stretto controllo dell’esercito dello stato ebraico. 

In questo scenario, i giornalisti di Gaza come Wael al Dahdouh, Motaz Azaiza, Hind Khoudary e tantissimi altri sono diventati gli occhi e la voce della Striscia, continuando a lavorare in una situazione di estremo pericolo e spesso con carenza di mezzi tecnici (telecamere e attrezzature distrutte, mancanza di elettricità o di connessione Internet a causa dei frequenti tagli alle comunicazioni). «La fase in cui si rischia la vita per mostrare ciò che sta accadendo è finita ed è iniziata la fase in cui si cerca di sopravvivere», ha dichiarato Azaiza lo scorso dicembre. «Riportare notizie sulla stessa identica situazione che stai vivendo è tremendo», ribadisce Khoudary. Alcuni giornalisti hanno dichiarato di essere stati contattati dall’intelligence israeliana, che li ha minacciati per farli smettere di svolgere il proprio lavoro. Lo scorso 7 gennaio il reporter Anas el Najar ha annunciato l’interruzione della sua attività: «qui finisce la mia copertura stampa», ha scritto  sui suoi canali social, perché preferisce pensare alla sicurezza della sua famiglia piuttosto che «trasmettere notizie a un mondo che non conosce umanità». 

Secondo il Committee to protect Journalists (Cpi)  un’organizzazione indipendente fondata nel 1981 per difendere la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti, sono almeno 82 gli operatori dell’informazione uccisi a Gaza dall’inizio dell’aggressione israeliana (75 palestinesi, quattro israeliani e tre libanesi), a cui si aggiungono 16 feriti, tre persone scomparse e 25 arrestate. Più alte le stime delle autorità della Striscia, secondo cui i morti sarebbero oltre il centinaio. In ogni caso, si tratta di un eccidio senza precedenti in un tempo così breve e del numero più 

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