Ci sono inviati di guerra che scrivono i loro pezzi comodamente spaparanzati su una sedia a sdraio sul terrazzo di un grande albergo, con tanto di cocktail ghiacciato al fianco e, magari, pure un cameriere che di nome non fa Venerdì, ma che finisce per assolvere agli stessi compiti per il colonizzatore di turno, per quanto travestito da giornalista.
Quello del corrispondente da luoghi in cui sia in corso un conflitto è un mestiere per definizione pericoloso, ma va da sé che nessuno lo impone a chi sceglie in assoluta autonomia di svolgerlo. Visitare il fronte è, dunque, il sale stesso della professione. Parecchie penne anche illustri dell’informazione internazionale hanno proiettato qualche ombra sul proprio illustre stato di servizio facendosi platealmente beccare in flagrante: con l’immancabile giubbotto tattico costellato di tasche, certo, ma pure con in mano il tumbler coperto da un velo di condensa, all’ultimo piano di un hotel di lusso, non in una trincea maleodorante. D’accordo, talvolta la prima linea, dove infuriano i combattimenti, non è facilmente raggiungibile e non è neppure indispensabile andarvi. Sporcarsi le mani ogni tanto, però, è il fondamento di un lavoro ben fatto.
Ma non è esattamente di guerra che intendo parlare. Il fulcro delle mie riflessioni è, però, una riproposizione del medesimo concetto: per scrivere con cognizione di causa di qualcosa, ogni tanto bisogna “andare al fronte”, scendere dalla torre d’avorio, tastare con mano la realtà, parlare con la gente e, magari, se a trasmettere le notizie è il corrispondente da un paese straniero, studiarne la cultura popolare. Ovviamente – ma non ci sarebbe nemmeno bisogno di sottolinearlo – serve onestà intellettuale. Ed è proprio un plateale disinteresse per quel substrato di cultura popolare fatto di canzoni, romanzi e film a contraddistinguere spesso le cronache di questo o quel corrispondente dagli Stati Uniti per alcuni dei principali organi di stampa italiani. Gli USA, si sa, sono un paese giovane che, per via della sua natura ancora embrionale, è ottimamente rappresentato dalla propria cultura pop. Ascoltare un brano di Bob Dylan i di Muddy Waters, leggere una pagina di John Steinbeck o, magari, guardare un bel film ne trasmettono un’immagine incredibilmente più aderente alla realtà di quanto possano fare lunghe e inafferrabili elucubrazioni politiche.
Uno dei corrispondenti dagli Usa che negli ultimi anni vanta il maggior numero di inviti a trasmissioni televisive di prima fascia e forum pubblici per pontificare su quel grande paese sembra aver fatto sua la lezione del “cocktail sul terrazzo”, con la sola differenza che, probabilmente, la bevanda è una tazza di caffè e il terrazzo non è altro che un mega-appartamento di Manhattan e che, invece del giubbotto tattico, indossa una camicia con un bel paio di bretelle rosse demodé, una sorta di dichiarazione al mondo di un passato illustre a cui ha abbondantemente voltato le spalle. Le dichiarazioni che sciorina con convinzione granitica riguardo alla complicata costellazione a stelle e strisce tradiscono un’assoluta non conoscenza della materia, se non una sfacciata distorsione della realtà. In occasione delle recenti elezioni presidenziali, lo avrete sentito sostenere che, alla faccia di quei rosiconi della sinistra italiana, gli USA in fondo non sono un paese diviso, per poi fare un plateale dietrofront e ammettere che, in effetti, tanto uniti non sono.
Naturalmente, nessuna autocritica, nessuna ammissione di aver detto una cosa platealmente contraddetta dai fatti. Si ha davvero la sensazione, ascoltando o leggendo le sue parole, che ci sia uno scollamento imbarazzante tra ciò che si vede dalla finestra di un ufficio di Manhattan e il resto dell’America. Basterebbe farsi un giro in provincia: si può concedere a un turista italiano che non abbia mai messo piede negli USA di farsi un’idea vagamente impropria della realtà locale dopo aver usufruito del classico pacchetto-base, una settimana a New York, magari condendo la visita con un giretto nella capitale, Washington, oppure con una gitarella alle cascate del Niagara per scattare qualche foto-ricordo.
New York è la porta di ingresso degli Stati Uniti o, se preferite, il biglietto da visita americano offerto all’Europa. In quanto tale, non assomiglia che vagamente al resto del paese. Ma il signore dalle bretelle pare non essersene ancora accorto. Le sue disamine – come quelle, peraltro, di parecchi altri colleghi, ma, nel suo caso, con l’aggravante di un’analisi viziata da una discutibile selettività di contenuti e valutazioni – finiscono per risultare acqua fresca e per essere, di fatto, di una superficialità urtante.
Sarebbe un giornalismo inutile, se alla non risultasse addirittura fuorviante. Un po’ come se il servizio meteorologico si limitasse a dire che a Roma c’è il sole e a Milano piove, senza esprimere una previsione affidabile sui prossimi sviluppi climatici. Un’attitudine che si osserva, con danni infinitamente meno gravi, nelle principali trasmissioni calcistiche televisive in cui i vari soloni del pallone dichiarano che la tal squadra ha finalmente trovato la quadra e la domenica dopo tornano sui propri passi commentando che quella stessa compagine non ha ancora mostrato di aver trovato il bandolo della matassa.
Rientra forse tutto nel marasma di contraddizioni che la frenesia dei recenti eventi internazionali ha agitato. L’appoggio incondizionato alla politica militarista di Joe Biden nel corso del suo mandato ha creato non poco scompiglio nel mondo dell’informazione, fortemente schierato pro o contro. Non a caso, il disimpegno brusco e arrogante di Trump ha ammutolito molti giornalisti, togliendo loro la terra di sotto i piedi e costringendoli, a loro volta, spesso a pesanti dietrofront o distinguo.