L’impossibile riforma dell’università

L’idea della modifica degli statuti degli atenei in sé non era sbagliata. Ma dal punto di vista tecnico si è rivelata un pasticcio, ricco di contraddizioni e di ambiguità.

L’impossibile riforma dell’università
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10 Settembre 2011 - 23.38


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La “riforma” dell’Università (legge 240/2010) voluta dal governo Berlusconi intendeva conseguire, con la modifica degli statuti degli atenei, due risultati principali:
1. Unire ricerca e insegnamento dentro una sola struttura organizzativa. il dipartimento, di fatto sopprimendo le vecchie facoltà;
2. dare maggior peso al Consiglio di amministrazione dell’università diminuendo il peso degli organismi periferici (facoltà).

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L’idea in sé non era sbagliata.
In effetti, nell’università uscita dalla riforma del 1980, la ricerca era affidata ai dipartimenti e l’insegnamento e il reclutamento alle facoltà. Questo sdoppiamento comportava problemi di varia natura e indeboliva l’organizzazione della ricerca.
In secondo luogo, ogni università era di fatto una “repubblica delle facoltà” e il governo dell’ateneo troppo condizionato da queste. Per questa ragione, incapace di imprimere una linea strategica d’ateneo in un quadro di competizione internazionale. In tutta Europa, si tende, in questa fase storica, a rafforzare il governo delle università.

Riforma pasticcio. Al di là delle intenzioni, la legge di riforma è, da un punto di vista tecnico, un pasticcio, zeppa di contraddizioni e di ambiguità. È mancata, inoltre, da parte del governo Berlusconi, la capacità di guidare il processo riformista. Ogni università è andata per conto suo. E dopo questa riforma sarà difficile riconoscere un “modello” di università italiana.
A livello regionale, è un’occasione mancata. La Regione Autonoma della Sardegna è stata incapace di proporre un disegno strategico per il sistema universitario regionale.

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L’assenza della politica e di una visione strategica generale
si riflette sul processo di riforma che viene messo in atto nelle università in Sardegna. Le due università si muovono in solitudine confortando il vecchio dualismo universitario sardo. Ciascun ateneo costruisce il suo statuto e riflette sulla propria offerta formativa. Da questo punto di vista, il processo è profondamente conservatore. E non potrebbe essere diversamente, giacché questa è la logica delle organizzazioni. Purtroppo, la Regione non dispone di un Assessore alla Pubblica Istruzione all’altezza del compito.
A livello locale, i processi di conservazione prevalgono poi nel costruire un assetto di governance che garantisce i gruppi accademici e gli assetti esistenti.


Nell’Università di Cagliari,
l’assetto tradizionale appare modificato in misura molto parziale. Infatti, rimane intatta la separatezza tra ricerca e insegnamento. I corsi di laurea saranno governati dalle Facoltà (apparentemente diminuite di numero) mentre la ricerca sarà confinata nei dipartimenti. La presunta razionalizzazione perseguita con la fusione dei vecchi dipartimenti ha creato strutture più ampie numericamente ma non per questo più coerenti od efficienti. La ricerca, in generale, non è al centro dei nuovi dipartimenti. Le nuove facoltà nascono come strutture di raccordo tra dipartimenti, attraverso la fusione delle vecchie facoltà. Anche in questo caso, non si tiene conto della concretezza della vita degli studenti e dei docenti.
In verità, non è emersa nessuna riflessione di spessore sulla qualità della didattica e sull’organizzazione della ricerca.


La partita si sta giocando sul terreno degli assetti di potere.
Il vecchio mondo universitario entra dentro il nuovo regime mirando a conservare rendite di posizione e privilegi. Certamente gli equilibri cambiano. Ci saranno vincitori e sconfitti. E questa prospettiva blocca la capacità di scommettere su un progetto realmente innovativo.

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Esiste anche qui un problema generazionale. I vecchi professori costruiscono un mondo, una nuova forma di organizzazione, nella quale non vivranno, per la quale non saranno valutati. Chi dice che la valutazione premierà i comportamenti virtuosi non tiene conto di questo dato: chi recluta oggi non sarà giudicato domani; chi mangia oggi, lascerà il conto agli altri.
Nel frattempo, si è perso di vista l’unico obiettivo sensato della riforma: migliorare la qualità dell’insegnamento e della ricerca, in una parola cambiare i modi concreti della vita universitaria.

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