Dunque il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, fa anche un altro mestiere, lo abbiamo appreso oggi. E’ un esperto delle forze di sicurezza italiane che monitora giorno e notte gli ambienti eversivi, probabilmente – ma in incognito – ricopre un alto grado, forse è addirittura un colonnello. E oggi Sacconi ci ha avvertito: “nuclei organizzati che operano clandestinamente” sono attivi nel Paese. La prova? Il caos messo in atto da alcuni gruppi di estremisti che hanno preso parte alla manifestazione degli indignati a Roma. Neanche Sacconi ha il coraggio di tirare fuori il marchio di fabbrica tanto consunto da apparire ormai impresentabile, quello delle brigate rosse; e poi la cosa apparirebbe fuori dal tempo. Invece no, la manifestazione di Roma è il sintomo, spiega il ministro, della nuova eversione. Sacconi non ha limiti ed evoca il caso di Marco Biagi e addirittura l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Vale appena la pena di ricordare al ministro che “quel rompicoglioni di Marco Biagi” – come amabilmente lo definì l’allora ministro degli Interni Claudio Scajola – fu lasciato senza scorta nel marzo 2002 dal solito efficiente governo di centrodestra. Così come negli incidenti romani, a rigor di logica e di politica, la prima responsabilità di quanto è accaduto è del ministero degli Interni dell’attuale governo, di nuovo di centrodestra. Ma guarda.
La verità, ci sembra, è che Sacconi di fronte all’autentico disastro sociale che sta colpendo l’Italia, mentre ‘il milione di posti di lavoro’ e il ‘non metterò le mani nelle tasche degli italiani’ svaniscono amaramente nel crepuscolo, non sappia più dove voltarsi. Perfino Montezemolo riesce ora a dire: ”non possiamo più permetterci di avere un fisco che premia rendite e patrimoni. Non è solo una questione di giustizia sociale, ma anche di efficienza dell’economia”. E si pensi che finanche per quel sovversivo del cardinale Angelo Bagnasco, “il lavoro viene prima del capitale” e i mercati senza regole sono considerati un peccato mortale. Poi c’è la proposta di Pietro Ichino, che sarà pure discutibile, ma prevede non meno diritti – nonostante Sacconi faccia finta di non capire – ma la fine del precariato eterno, dunque lo stop ai contratti a termine e solo a partire da ciò una regolamentazione nuova anche per i dipendenti a tempo indeterminato. Chiedere in modo ossessivo ancora maggiore flessibilità – cioè deregulation totale – nel mondo del lavoro, significa colpire, ormai indiscriminatamente, intere fasce sociali, fare a pezzi i giovani e cancellare infine ogni prospettiva di vita per quelle famiglie tanto osannate dal neocattolico d’assalto Sacconi e da numerosi suoi colleghi.
Il problema, come usava dire un tempo, è tutto politico ed evocare nuclei organizzati sovversivi serve solo a rimandare di qualche ora o di qualche giorno il confronto con una realtà pesantissima, nella quale l’unico fatto certo è che anche grandi imprese annunciano infine migliaia di licenziamenti. Sacconi non è capace – non può – parlare né come Montezemolo, né come Bagnasco e nemmeno come Ichino: la politica di cui è strumento, infatti, non prevede nessun tipo di riformismo è solo figlia di un classismo un po’ furbo, all’italiana, in cui il populismo declamatorio del ‘faremo ponte sullo Stretto’ si salda con liberalizzazioni immaginarie e impossibili, con la vendita del Colosseo, passando per l’odio rivolto alla perfida Bruxelles al detestato euro, senza dimenticare il progetto di un fisco misurato sulle famiglie, sbandierato per anni, e di cui ancora si cercano le tracce intorno agli anelli di Saturno.
Infine ricordiamo al ministro che anche di recente ci sono stati dei morti a causa del lavoro in Italia, si tratta delle operaie sottopagate scomparse nelle macerie del crollo di un edificio a Barletta lo scorso 3 ottobre. Sarà pure retorica ma ci piacerebbe che, una volta tanto, invece di vergognosi allarmismi si cominciasse la discussione a partire da qui.