La storia dell'orco di Nuxis e di sua figlia

La sconvolgente intervista apparsa sull'Unione Sarda: avevo 14 anni, da quel momento non ha mai finito; mi ha violentata in camera, in macchina, in campagna.

La storia dell'orco di Nuxis e di sua figlia
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11 Gennaio 2012 - 10.56


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di Luisa Betti A due mesi dall’arresto del padre che l’ha violentata per 30 anni, ora in carcere con l’accusa di infanticidio, parla la donna di Nuxis, un paese in provincia di Iglesias in Sardegna, vittima della violenza. L’uomo, S. C. di 71 anni, è accusato di aver ucciso e abbandonato sotto un ponte a Siliqua, 15 anni fa, il bambino, frutto degli stupri, da lei partorito in un bagno e che fu ritrovato morto. Il Tribunale del Riesame ha respinto la richiesta di scarcerazione avanzata dai legali. Qui riportiamo parte dell’intervista di Giorgio Pisano, apparsa due giorni fa sull’Unione Sarda, che ha incontrato la donna raccontando la sua storia.

«Siccome noi l’acqua calda ce l’abbiamo solo in bagno, io in bagno stavo lavando i piatti. È cominciato tutto lì».

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Lì, in bagno?

«Sissignore. Papà è entrato e ha iniziato a toccarmi. Io avevo undici anni ma certe cose le sapevo già. Ho gridato smettila, no no, e lui dopo un po’ se n’è andato».

Non è accorso nessuno?

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«No, eppure c’erano tutti: mamma, le mie quattro sorelle e mio fratellino che allora era proprio piccolo e non poteva capire». Ha capito dopo. «Certo, anche lui. Avevano capito tutti. Anche perché papà non ha smesso. Di toccarmi, voglio dire». […]

L’orco, va detto per completezza d’informazione, sostiene di non aver mai sfiorato la figlia e tantomeno d’aver soffocato e scaraventato sotto un viadotto il bimbo nato dalla loro relazione. A domanda, come si dice nei verbali di polizia, risponde d’essere stato un galantuomo: prima macellaio e poi operaio, vicino fino all’ultimo alla moglie in agonia. Quel che resta della figlia è una donna magrissima, occhi proiettati fuori dalle orbite, mani e gambe sempre in movimento. […]

Con sua madre ha parlato di cos’era successo in bagno?

«Certo. È rimasta zitta. Poi se l’è presa con me. Dice che era colpa mia. Dopopranzo certe volte mi faceva la ramanzina di fronte alle sorelle: anziché odiare il marito, odiava me».

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E le sorelle?

«E le sorelle e le sorelle. Sapevano e se ne fregavano».

Intanto suo padre?

«Papà, perché io l’ho sempre chiamato papà e non babbo, mi scocciava sempre. Un giorno è venuto in camera da letto. Nel letto a fianco c’era mia sorella. Era tutto nudo, voleva entrare sotto le coperte ma io mi sono ribellata. Gli davo calci. Alla fine si è arreso e se n’è andato».

Sua sorella?

«Forse dormiva e non si è accorta di nulla».

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Urla, calci e continuava a dormire?

«Può darsi».

Quanti anni aveva quando la situazione è precipitata?

«Rapporto completo, vuol dire? Quattordici o quindici anni. Nel lettino della mia camera. Ha accompagnato mia mamma da parenti a Santadi, poi è tornato a casa con una scusa perché sapeva che ero sola. Non me l’aspettavo. Era mattino, questo lo ricordo bene. Da quel momento non ha mai finito».

Cioè?

«In camera, in macchina, nel locale che abbiamo in campagna. Dovunque ci fosse la possibilità, mi ha violentato. Nei mesi freddi, meno; d’estate, di più».

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Con chi ne ha parlato?

«Con le sorelle, prima di tutto. Dicevano che era colpa mia. Ricordo che una volta mi sono rifiutata e allora papà ci ha punito tutti: niente televisione, niente film per un paio di giorni. Sa come hanno reagito le mie sorelline? Non mi rivolgevano la parola. Offese. Come mamma: ho sempre pensato che ce l’avesse con me, che fossi io la vera colpevole».

Non trovava proprio nessuno a cui chiedere aiuto?

«La verità è che sono stata io la cretina. Debole, insicura. Me ne sarei dovuta andare».

Lei è cattolica. Ha provato a parlarne col prete?

«Certe cose non puoi raccontarle a un sacerdote. In compenso, gliene dicevo altre. E ho sempre fatto la Comunione perché davanti a Dio non mi sentivo responsabile».

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Mai sfiorata dall’idea del suicidio?

«Sì. Quand’ero incinta la prima volta e ho abortito. Papà mi diceva: tienilo, diremo che t’ha fregato un ragazzo di paese. È antiabortista, papà. Poi ci ho ripensato la seconda volta, cioè quando mi è nato il bambino. Progettavo di mettermi una busta in testa e morire affogata, senz’aria. Purtroppo non ho avuto il coraggio di farlo».

Con sua madre neanche un attimo di solidarietà?

«Come no, sì. Le ho voluto un gran bene anche se non ha denunciato il marito per quello che mi faceva. Mi offendeva di brutto, mi diceva che papà avrebbe potuto trovare altre donne e se invece cercava me qualche motivo doveva pur esserci. E io mi chiedevo: quale motivo? È stata comunque una buona madre di famiglia, affettuosa e senza difetti. Anzi uno: forse ha voluto troppo bene al marito, gli ha perdonato tutto».

Ha mai detto ai suoi d’essere incinta?

«Certo. La prima volta avevo ventidue anni. Ho abortito all’ospedale san Giovanni di Dio a Cagliari. Quando sono rientrata a casa, papà non mi ha chiesto niente, mamma forse era all’oscuro, mia sorella maggiore ha scelto la via più comoda: silenzio».

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L’ipotesi di prendere precauzioni?

«Chi, precauzioni lui? Alla fine mi sono rassegnata e ho preso la pillola».

Era geloso?

«Da morire. Non mi faceva uscire, non voleva che vedessi i ragazzi della mia età, una volta ha fatto una scenata perché ha sentito squillare il mio cellulare. Chi è, chi ti cerca? tu non ci devi essere per nessuno».

Tenerezze?

«Vuol sapere se mi ha mai detto ti amo? No. Si limitava ad accompagnarmi dappertutto, a controllare che nessuno potesse avvicinarmi. Doveva essere lui l’unico uomo della mia vita. E io, io potevo difendermi soltanto non collaborando. Gli dicevo: papà, mi fai schifo. Mi guardava e ordinava: intanto spogliati».

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Minacce?

«La solita: ti sbatto fuori da casa. Dopo che è morta mamma, non volevo più avere rapporti con lui. Allora ha chiamato una mia sorella che abita in un paese vicino: le ha detto che voleva andarsene in ospizio, che lo trattavo male. Sono stata rimproverata. Ho gridato che diceva così perché non volevo più fare l’amore con lui. Mia sorella è stata durissima: di queste cose non voglio sapere».

Un’amica del cuore l’ha avuta?

«Sì. Le ho chiesto se mi ospitava a casa sua. Mi ha detto no. Credo che subisse la mia stessa sorte». […]

Poi c’è la seconda gravidanza.

«Avevo un pancino da niente, non sembravo incinta. Un giorno sono andata all’ospedale di Carbonia: c’era mia madre ricoverata. Mi sono arrivati dolori piano piano e poi sempre più forti. La notte c’era da impazzire. Di mattina torno in ospedale e mi accorgo che mi si erano rotte le acque».

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Ha chiesto aiuto?

«No. Sono andata nel bagno della camera di mia madre. Mi mordevo le labbra per non gridare. Cercavo una posizione. A un certo punto mi sono piazzata a gambe larghe, in piedi: il bambino è venuto fuori e ha battuto la testa sul water. Non so come, il cordone ombelicale s’è staccato da solo. A quel punto papà ha bussato».

Alla porta del bagno?

«Sì. Io ero in un mare di sangue. Il bambino l’avevo steso sul pavimento. Lui mi ha detto: dammelo, ci penso io. Ed è andato via. Mi è dispiaciuto per mio figlio, non l’avrei tenuto ma non volevo».

Non voleva, cosa?

«Tre giorni dopo ho chiesto a mio padre che fine avesse fatto il bambino. L’ho buttato a mare, mi ha risposto. Da quel momento non ne abbiamo più parlato».

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L’autopsia dice che è morto soffocato da un grumo di carta igienica ficcato in gola.
«Non lo so. Quando l’ho dato a papà era vivo, ne sono sicura».

La sua famiglia sapeva. E il paese?

«Le voci c’erano. E dicono tutti che è colpa mia. Alle Poste, dove sono andata a pagare la corrente, m’ha salutato soltanto una signora. Tutti gli altri zitti: non esisto più per loro». […]

Chi l’ha voluto, lo scandalo?

«Mio cognato. Voleva vendicarsi di mia sorella, da cui vive separato. Ha detto che l’ha fatto per togliersi un peso dal cuore. Altro che peso, maledetto. Fosse stato muto, nessuno avrebbe mai saputo. Nessuno».

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