“Una violenta azione repressiva nei confronti di un ragazzo che si trovava da solo, in uno stato di visibile alterazione psicofisica”. Così la Corte di Cassazione bolla il comportamento dei quattro poliziotti che hanno ucciso, il 25 settembre del 2005, il diciottenne Federico Aldrovandi. Le motivazioni della sentenza che il 21 giugno aveva respinto i ricorsi presentati dai poliziotti – condannati in primo e secondo grado per omicidio colposo a 3 anni e sei mesi – stracciano uno a uno tutti i motivi di “illogicità” proposti dai ricorrenti.
Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri hanno agito in modo “sproporzionatamente violento e repressivo”, scrive il presidente Carlo Giuseppe Brusco, che respinge anche la richiesta di applicare le attenuanti generiche – già respinta in secondo grado – proprio sottolineando il comportamento dei quattro poliziotti. Che hanno tentato di despistare le indagini fin dal principio, e hanno omesso “di fornire un contributo di verità al processo”.
E’ vero che un imputato può evitare di portare prove autoincriminanti, ma questo non può sussistere quando l’imputato è un pubblico ufficiale che ha la responsabilità di redigere verbali, che poi diventeranno prove processuali. Al contrario, nota la Corte ripetenedo quanto già detto dal Collegio d’Appello, sin dalle prime note di servizio redatte da Pontanto, Segatto, Forlani e Pollastri l’obiettivo era solo uno: allontanare da loro stessi qualsiasi tipo di di colpa.
Alla lunga, però, tutti i nodi vengono al pettine. E anche questa complicatissima storia – su cui ancora mancano alcuni elementi che permettano di ricostruire l’intera dinamica – ha una sua legge del contrappasso. Sono proprio quei verbali, infatti – scrive la Corte – a far cadere uno degli elementi più forti della linea difensiva degli imputati. I quali di fronte ai giudici del Palazzaccio hanno contestato l’utilizzo della foto del cuore di Federico, attraverso cui uno dei consulenti di parte civile ha riconosciuto la contrazione del fascio di His che ha dato una svolta all’intero caso, dimostrando una volta per tutte che Federico era morto a causa del violento schiacciamento del suo torace.
I poliziotti infatti hanno sostenuto che quella prova non andava utilizzata, perché raccolta quando gli agenti non erano ancora stati sottoposti a indagini, benché fosse già possibile “prospettare una loro sottoponibilità alle indagini”. Ebbene: i giudici di Cassazione fanno osservare che al momento dell’autopsia, e cioè il 27 settembre del 2005 – due giorni dopo l’uccisione di Federico – l’unica versione era quella della questura, che adduceva senza alcun dubbio la causa della morte all’ingestione di sostanze psicotrope. E’ stato “uno schioppone”, dicevano i poliziotti all’epoca. Questo dicevano i giornali.
Uno a uno cadono poi sotto i colpi del giudizio di legittimità le carte giocate dai difensori dei quattro poliziotti, una delle quali, Monica Segatto, come già in Appello ha schierato niente meno che l’avvocato di grido Niccolò Ghedini. Proprio Segatto ha cercato di costruire una linea difensiva personale, sostenendo che la testimone principale Anne-Marie Tsegue, una donna camerunense che quella mattina si affacciò alla finestra assistendo alla parte finale del pestaggio, aveva descritto la poliziotta intenta a tenere ferme le gambe di Federico e a percuoterle.
Dunque, sosteneva il suo difensore, non è stata lei a ucciderlo, perché non era piegata sul torace del giovane. Ma i giudici non sono affatto d’accordo, e pur ribadendo che non spetta ai giudici di legittimità intervenire sulla ricostruzione dei fatti – a meno di evidenti illogicità – sottolineano quanto sostenuto dal Collegio di appello: Segatto guardava cosa facevano i colleghi “senza esprimere alcun dissenso”. Anzi, anche lei percuoteva le gambe di Federico, che nel frattempo gridava “basta”. Quindi è copevole al pari dei suoi colleghi. Allo stesso modo la Corte ribadisce l’elemento del concorso, riconoscendo un “coordinamento psicologico” tra i quattro e rimproverando la “mancata vigilanza” sul comportamento degli altri colleghi.
Il giudice Brusco, inoltre, non condivide il ricorso degli imputati sull’utilizzo della testimonianza del professor Gaetano Thiene che – appunto – guardando la foto del cuore di Federico e “leggendo”i cosiddetti vetrini, capì che il ragazzo non poteva essere morto per “excited delirium syndrome” come sostenevano i consulenti della difesa, ma per lo schiacciamento del cuore dovuto a una violenta compressione. I poliziotti contestano che il professore era un consulente delle parti civili.
Ma la Corte ritiene queste osservazioni “prive di pregio”, ricordando che il giudice di merito ha il diritto e il dovere di ricorrere ai pareri scientifici che ritenga opportuni, valutando anche l’affidabilità del consulente. E secondo il Collegio della Cassazione la Corte d’Appello aveva spiegato in modo esauriente perché il lavoro di Thiene era stato ritenuto più appropriato di quello di Rapezzi (il consulente della difesa). Senza contare che al processo di Appello Thiene non era più consulente della parte civile, visto che la famiglia non aveva partecipato al processo.
Tra l’altro, la Cassazione mette nero su bianco anche un altro importantissimo aspetto: non ci è alcun fondamento scientifico, come sostenuto già dall’Appello, per sostenere che Federico Aldrovandi sia morto a causa delle droghe. Eppure, durante l’udienza al Palazzaccio, è proprio questo che i difensori dei quattro agenti hanno continuato a sostenere. Insistendo su un altro punto, e cioè che loro proprio non capivano dove avessero sbagliato, essendosi scrupolosamente attenuti ai manuali professionali. Anche su questo punto di giudici intervengono con decisione: l’approccio dei poliziotti è stato “gravemente incauto”.
I poliziotti – scrivono i giudici – “non agirono affatto perché costretti dalla necessità di difendere un proprio diritto” ma ponevano in essere “una violenta azione repressiva” mal dosando la forza da utilizzare, e senza mettere in atto un atteggiamento “dialogico”. I difensori hanno insistito a dire che non si poteva dialogare con Federico, perché si era comportato in modo aggressivo e violento, come dimostra la “sforbiciata” fatta dal giovane di fronte ai quattro agenti, lui che era “un judeka cintura marrone”. Ma i giudici sottolineano che la sforbiciata “era andata a vuoto” e che la testimonianza di Tseugue – ritenuta del tutto attendibile – raccontava proprio l’azione repressiva esercitata mentre il ragazzo “era a terra inerme”.
Le motivazioni della Cassazione arrivano a poco meno di una settimana dall’anniversario della morte. Sabato a Ferrara un concerto lo ricorderà, insieme a tutte le altre vittime della violenza delle forze dell’ordine. E se queste motivazioni mettono la parola fine al percorso giudiziario, ora se ne pare un altro, forse più importante: chiedere il licenziamento dei quattro poliziotti. La petizione ha già raggiunto centomila firme.
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