di Onofrio Dispenza
“Se non lavoro non ho dignità. Adesso mi tolgo dallo stato di disoccupazione”.
Una corda intorno al collo dopo aver riletto l’articolo 1 della Costituzione. Lo conosceva bene quell’articolo, lo vedeva disprezzato ogni giorno, sulla propria pelle e sulla pelle dei tanti senza lavoro che lo circondavano. E allora, un messaggio disperato, l’ultimo. Dopo aver sperato, dopo essersi disgustato e poi disperato, dopo aver chiesto, implorato, supplicato, pregato, non gli è rimasto altro. Buttarsi nella mani del Dio Padre che avrà pregato per l’ultima volta, chiedendogli perdono.
Poi, il messaggio infilato tra le pagine del libro della Repubblica Italiana, scritto con la grafia di chi sta per lasciare questo mondo senza giustizia. Su quel pezzo di carta Giuseppe ha, però, scritto con cura, uno dopo l’altro, l’elenco dei morti di disoccupazione. Si è fermato a ricostruire la strage degli ultimi due anni. Uno ad uno, rivivendo il rosario di lutti collezionati dalla crisi e da chi nella crisi è stato cinico killer vestito d’oro. L’ultimo nome in fondo alla lista, il suo: Giuseppe. Si è messo in coda, la corda al collo, e ciao! I carabinieri lo hanno trovato, tragico pendolo d’accusa, appeso ad una trave, sotto casa. Il corpo senza vita di Giuseppe Burgarella e le sue due frasi. Secche, taglienti come una lama bianca di ceramica. Eppure, ci saranno cuori e meningi che avranno tanta durezza da diventare scudo impenetrabile.
Guarrato, dove abitava Giuseppe, ha poco più di mille abitanti. Siamo vicini a Trapani, sulla strada che porta a Marsala, dove si fece l’Italia. Ed anche i nuovi italiani, quelli venuti dall’altra sponda del Mediterraneo, che in questo Paese, fortunati ad arrivare vivi, hanno dato sudore e sangue. Per Giuseppe la vita si è fermata a poco più di sessantanni, la dignità gli era stata scippata tanto tempo fa, quando era scaduto il suo ultimo contratto di lavoro. Se il lavoro lo aveva lasciato troppo presto, il lavoro lo aveva strappato ai giochi di strada che era solo un ragazzino: tagliare il marmo, sotto il sole, respirando la polvere bianca della pietra lavorata. Qui, l’entroterra è di cave che guardano il mare: per Giuseppe, sempre e solo marmo, e mattoni per un’edilizia fatta prima di abusiva esplosione di cemento, poi di crisi e di scheletri incompiuti. Incompiuti come la vita di Giuseppe, la sua e la nostra Costituzione.
Tutto accade quando manca poco al voto. Ci avviciniamo alle urne accompagnati da strilla televisivi e il gioco crudele delle promesse incrociate. Accompagnati da sondaggi e affiancati da accordi politici. Giuseppe ha già votato. Ha messo nell’urna la sua scheda: l’articolo 1 e le sue ultime parole, perché vengano lette. E non distrattamente.