Sono trascorsi quattro lunghi ed intensi anni dalla notte che ha travolto e spazzato via L’Aquila.
Settanta mila persone coinvolte nella tragedia, 309 martiri innocenti.
Una città distrutta con tutti i monumenti ed un intero centro storico spazzato via.
Siamo morti nei nostri letti, alle 3:32, sorpresi nel sonno e traditi dalle case che avevamo scelto e arredato con tanto amore.
A chi è sopravvissuto a quella forte scossa di magnitudo 6.3 è rimasta la consapevolezza che pochi centimetri di cemento armato e la solidità del terreno abbiano fatto la differenza.
309 morti sono stati la grande ingiustizia del nostro terremoto e la sentenza di colpevolezza per gli scienziati della Commissione Grandi Rischi ne è la congrua conseguenza. Colpevoli di aver tranquillizzato, nella riunione del 31 marzo 2009, una città in sciame sismico da quattro mesi, con la ratio che la ripetizione frequente di molte scosse scaricasse la potenza del terremoto e scongiurasse il Big One.
Avremmo dovuto essere una città in allerta, con le auto nei parcheggi davanti ai palazzi e non dentro i garage sotto i palazzi che sono caduti schiacciandole; con le coperte e le medicine nelle auto; con acqua e viveri per affrontare il peggio, che poi si è verificato.
In quei quattro maledetti mesi, invece, noi avevamo imparato a convivere con quelle scosse e a riconoscerne la magnitudo. Il grande terremoto del 6 aprile ci ha tradito perchè ci aveva abituato, altrimenti sarebbero stati più pregnanti gli insegnamenti degli anziani che ci suggerivano di non aspettare mai la terza scossa in casa. Ma la terza scossa l’avevamo superata da mesi.
Così la prima ci ha scosso alle 23 circa, poi all’una… Ci siamo rimessi a letto vestiti, con le scarpe al posto delle solite pantofole e lo zaino con un cambio, dell’acqua e un pacco di biscotti davanti la porta di casa.
Ci siamo trovati alle 3:32 al buio squarciati dall’ululato della terra, siamo scesi in quella gelida notte a meno due gradi per strada, tra la coltre della polvere e i buchi alle pareti aperte nella luce della luna. Abbiamo trovato le fontane con i tubi rotti che zampillavano acqua marrone, le strade squarciate e i palazzi ridotti a mezzo metro di macerie.
Nei giorni precedenti al sisma erano stati consegnati all’ospedale de L’Aquila tremila sacchi per le salme, ma nella caserma dei vigili del fuoco c’erano solo 22 angeli.
Tutt’Italia dovrebbe ascoltare le registrazioni delle telefonate ai numeri di pronto intervento di quella notte per immedesimarsi con quelle voci incredule che chiedevano aiuto per scavare tra le macerie e soccorrere delle vite o con gli impotenti e sopraffatti che tentavano di gestire quelle telefonate sapendo di non poter inviare nessuno perché dalle caserme e dagli ospedali il personale era già tutto fuori.
Abbiamo dovuto aspettare le colonne di aiuti dalle città più vicine, le squadre cinofile e i soccorsi medici dal centro Italia e poi abbiamo scoperto sulla nostra pelle il significato della solidarietà.
Gli aiuti. Ritrovarsi con i panni in dosso e nient’altro e doversi affidare ad altri.
Dormire in macchina al freddo senza coperte, né cibo, né acqua.
Essere inviati sulla costa abruzzese dove le strutture turistiche hanno aperto per noi le porte impolverate, chiuse dalla stagione estiva.
Sentire bussare alla porta della stanza d’albergo e trovarsi le signore della Caritas con una busta piena di spazzolini dei denti, saponi, parmigiano, uova e latte.
Scoprirsi terremotati.
Il resto, questi quattro anni sono stati solo una corsa alla sopravvivenza, una corsa continua verso qualcosa che altro non è che la speranza di riavere la nostra vita.
Oltre quarantamila persone non sono ancora rientrate a casa loro. Vivono in condizioni dignitose.
L’80% dei bambini dai 6 ai 12 anni ha riportato dei postumi da trauma, le altre fasce d’età non sono state semplicemente studiate!
Nel fine settimana scappiamo, cerchiamo quello che qui non c’è più: i vicoli con il profumo della vita, una piazza con i piccioni e i nonni seduti sulle panchine, mamme che guardano compiaciute i loro piccoli correre e giocare nella piazza, i rumori delle parole, dei sorrisi, del lavoro, dei negozi.
Il terremoto ormai ce lo portiamo dentro, i suoi effetti devastanti ci accompagneranno ancora per tante generazioni ma tra 300 anni, quando arriverà di nuovo una grande scossa devastante, dovremo aver lasciato ai nostri figli una città sicura, in grado di reggere a qualunque scossa tellurica.
*direttore de Il Capoluogo de l’Aquila