I medici: «Cucchi abbandonato dalla famiglia»

La reazione corporativa dei camici bianchi in assemblea con i condannati per omicidio colposo all'ospedale Pertini [Checchino Antonini]

I medici: «Cucchi abbandonato dalla famiglia»
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11 Giugno 2013 - 17.27


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di Checchino Antonini

Sono medici ma non sanno di cosa sia morto il paziente Cucchi. Insinuano che le percosse possano avere un ruolo ma poi ritrattano, in fondo era drogato da quando andava agli scout (questa l’hanno copiata dalla pm). Dicono che è stata una morte improvvisa e imprevedibile ma prima avevano detto che era gravissimo e subito dopo un infermiere dirà che non c’aveva niente. Si sentono vittime dell’odio mediatico o, addirittura, di certi poteri ma non dicono quali. C’è chi chiama baroni alcuni di loro, signori della morte e della guarigione, poco avvezzi ad essere contraddetti. Non ci stanno ad essere l’anello debole del caso Cucchi. Dicono di sentirsi vittime predestinate dall’inizio di questa vicenda. Una di loro, che s’autodefinsice di sinistra, dice che il mostro fa comodo ai poteri ma poi ammette che il mostro è un mostriciattolo. L’omicidio colposo, in effetti, è reato molto meno grave di quello ipotizzato: abbandono di incapace. Reato infamante, giustamente, per tutti quelli che affollano la sala riunioni dell’ospedale Pertini di Roma, più di cento tra camici bianchi, infermieri, agenti di polizia penitenziaria. Soprattutto medici. Camici bianchi che non rinunciano al vizio più antico di casi del genere, quello di criminalizzare le vittime, lo stesso vizio delle forze dell’ordine in circostanze analoghe. Però Stefano è schiattato e magari non è bello prendersela con lui, così quando il presidente del Tribunale per i diritti del medico esclama che in fondo è colpa della famiglia, che l’avrebbe abbandonato, la sala sospira all’unisono con un effetto raggelante in cui non si riesce a distingure la commozione sincera da quella di eventuali mestieranti.

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No, non è stato uno spettacolo edificante quello fornito, al di là delle intenzioni, dai medici del Pertini stamattina. L’impressione del profano è quella di una reazione corporativa, di messaggi cifrati – dico e non dico – di accuse alla politica che li avrebbe lasciati in balìa degli eventi processuali, di accuse a politicanti che avrebbero costruito posizioni anche recenti su questa storia. L’allusione alla Boldrini che, poco dopo, avrebbe ricevuto alcune vittime di malapolizia alla Camera non è nemmeno troppo velata.

Una delle dottoresse condannate ha scritto una lettera aperta e la legge tra gli applausi dei colleghi: «Il processo non è riuscito a rispondere a questa domanda, ovvero se le percosse ci siano
state e soprattutto da parte di chi (…). L’aver accomunato nel medesimo processo, sia coloro che erano accusati di un pestaggio ai danni di una persona privata della libertà personale, sia i medici accusati di averli coperti e avere abbandonato quella persona, ha fatto sì che quei medici, nell’immaginario collettivo, siano diventati essi stessi degli aguzzini, sui quali sono state translate, per assurda proprietà transitiva, tutte le accuse fatte ai primi (…)», scrive Stefania Cordi, uno dei medici del reparto Medicina Protetta condannata a un anno e quattro mesi. Il primario, Aldo Fierro, s’è preso due anni, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo a un anno e quattro mesi mentre Rosita Caponetti a otto mesi ma per il reato di falso ideologico. Per tutti, sospensione condizionale della pena. Solo Fierro, Cordi e Caponnetti lavorano ancora nella struttura. Nella maxi-perizia dello scorso dicembre, alle cui conclusioni i giudici sembrano essersi allineati, si legge che «I medici, con condotte colpose o con imperizia o con negligenza, non hanno saputo individuare la patologia da cui era affetto il paziente Stefano Cucchi, di cui ne sottovalutarono le condizioni l’evento morte era prevedibile».

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Quello che è accaduto tra le griglie del repartino bunker lo sanno in pochissimi ma tutti gli altri rinunciano a porsi domande. I cronisti, almeno quelli più detestati dai camici bianchi, provano a formularle da tempo, da quel giorno d’ottobre del 2009 in cui si sparse la notizia che un trentunenne era entrato in galera e ne era uscito morto, sfigurato, sei giorni dopo.

Perché nessuno di loro chiamò il magistrato di sorveglianza? Perché tutti quei pasticci sul brogliaccio clinico? Perché e chi spedì l’ultima lettera di Stefano alla sua comunità terapeutica tre giorni dopo la sua morte? Perché fu ricoverato di sabato, giorno in cui non si usa farlo, nel repartino? E perché non al pronto soccorso visto che la Medicina protetta non è un reparto attrezzato per l’emergenza? Perché ai suoi familiari venne impedito di vederlo e nessuno dei seguaci di Ippocrate sentì di doverli mettere al corrente delle sue condizioni? Ma soprattutto perché si fece di tutto per tenere Stefano lontano dagli occhi del mondo visto che con ogni mezzo a sua disposizione quel detenuto provava a rompere l’isolamento?
Un medico era assente stamattina e la sua casta non sembra essersi ricordata di lui: è il medico di turno a Regina Coeli il 16 ottobre del 2009 quando Stefano arrivò dal tribunale. Quel medico lo spedì d’urgenza al pronto soccorso del Fatebenefratelli perché era messo così male da essere inaccettabile perfino per la galera. Quel medico non lavora da allora.

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