Se fosse possibile, dovremmo metterci tutti in coda e visitare uno dei tanti campi profughi siriani. In Libano, in Turchia, in Kurdistan. Entrarci e sentire i loro racconti, i racconti degli uomini, delle donne e dei bambini che sono scappati dalla Siria, sentire i loro lutti, ricevere da loro uno schiaffo quando riescono a sorriderti e a offrirti un thè, circondati dalle loro poche cose, poche, dignitose e preziose.
Poi dovremmo parlare con i medici, che hanno visto di tutto, che ti aprono l’album degli orrori, foto inguardabili di ferite senza fine. Tu chiedi dei morti delle stragi provocate dalle armi chimiche e i medici si incazzano.
Aprono a caso l’album fotografico degli orrori, ti mostrano un bambino fatto a pezzi e ti dicono: ”Questo non è stato ucciso dalle armi chimiche. Fa differenza? In questi anni di latitanza del Mondo, sai quanti ne sono morti come questo, senza attendere le armi chimiche?”.
Ecco, questo va detto, in queste ore e in questi minuti d’attesa per una pace che può scoppiare, come da preghiera del mondo intero, liberandoci da un attacco che potrebbe sfociare in una guerra. Fermare le armi chimiche e farle passare in mani più responsabili di quelle di Assad o di uno dei tanti gruppi che si sono insediati nello schieramento dell’opposizione al regime, non risolve il problema.
Non deve mettere in pace la nostra coscienza. Quanti morti anche oggi per una cannonata, una sventagliata di mitra, per i colpi del cecchino di turno? La guerra è un animale difficile da domare, e la pace è una colomba delicata.