Undici anni fa, il 29 maggio, venivano massacrati in Bosnia centrale tre cooperanti italiani, partiti con altri da Brescia e Cremona per portare soccorsi alle popolazioni stremate dalla guerra che disintegrava la Jugoslavia. Guido Puletti, Fabio Moreni e Sergio Lana. Per i loro familiari e per chi non ha mai smesso di seguire la vicenda, non si trattò di un eccidio a copertura del furto di beni, mezzi e soldi del piccolo convoglio italiano. Al contrario, fu invece il furto a copertura degli omicidi. Tra i molti punti oscuri comincia ad affiorare un dubbio, una sorta di j’accuse: l’ordine sarebbe partito da Roma.
Questa vicenda proverà a rivivere con un volantinaggio in Piazza Loggia, il 28 maggio, quando si terranno le celebrazioni del 40mo anniversario di un’altra strage. Anche qui sembrano esserci alcuni degli ingredienti ricorrenti in casi del genere: i fascisti e le barbe finte. L’Associazione intitolata a Diego Puletti, militante comunista e attivo nelle prime esperienze di diplomazia popolare, ha presentato ieri a Brescia un dossier che potete trovare integralmente allegato a questo articolo.
Tutto comincia nell’estate scorsa quando l’Associazione riesce a ottenere una serie di nuove informazioni relative all’eccidio del 29 maggio 1993, in cui vennero uccisi Guido, Fabio e Sergio da una unità militare bosniaca al comando di Hanefija Prijić detto “Paraga”. «Abbiamo potuto determinare che l’identità della donna che accompagnava “Paraga” nel maggio 1993 non è quella di Rasema Handanović (oggi collaboratrice di giustizia in Bosnia, associata a “Paraga” dalla stampa e dalle procure bosniache, associazione che la stessa interessata non ha mai smentito nonostante venga usata per minare la sua attendibilità come collaboratrice di giustizia), ma quella di Rasema Oručević, di cui sono disponibili fotografie risalenti al novembre 1992», è stato spiegato in una conferenza stampa disertata in massa dalle testate nazionali.
I familiari e i compagni di Guido hanno raccolto una serie di fotografie di “Dino” Prijić, accusato da “Paraga” di essere uno degli esecutori materiali dell’eccidio (questa accusa è in contraddizione con i ricordi dei sopravvissuti) e una serie di informazioni indipendenti che confermano la veridicità dell’organigramma fornito (al processo del 2001) da “Paraga” relativo alla sua unità militare «organigramma non tenuto in alcun conto durante il processo bosniaco del 2001». C’è anche uno scatto che ritrae Ramiz Hajdarević, nel ’94, probabilmente uno degli esecutori materiali insieme a Nihad Huntić. Tutti elementi a sostegno che quel processo fu una farsa concordata – con le buone o con le cattive – con l’imputato. Doveva essere condannato “Paraga” ma senza toccare l’anello superiore, i mandanti. «La non identificazione degli esecutori materiali era funzionale alla non individuazione di queste responsabilità superiori». Se in qualche modo venne illuminata la fase dell’eccidio, in senso stretto, il silenzio e l’ombra avvolgono ancora le fasi iniziali e finali dell’operazione: l’ordine iniziale e la destinazione finale dei mezzi e dei soldi.
Continua il racconto del dossier: “ La regia dell’inchiesta e del processo si reggeva su questi due elementi; le false identificazioni di Rasema Handanović e di “Dino” Prijić (all’epoca del processo rispettivamente negli Usa e in Canada) erano i pilastri del primo punto.
Prima di queste identificazioni “Paraga” aveva sollevato il caso di Meho Čehedarević detto “četnik”, capo della polizia militare di Gornji Vakuf all’epoca dei fatti: “Paraga” sostenne che fare luce sul suo omicidio avrebbe permesso di fare luce sulll’omicidio degli italiani. Abbiamo identificato Meho “četnik”, il cui vero cognome non era Čehedarević ma Haznadarević, e abbiamo ricostruito e chiarito le vicende del suo effettivo omicidio. La logica di questo intervento di “Paraga” era di intervenire nella trattativa finalizzata alla definizione della regia dell’inchiesta. Le false identificazioni di Rasema Handanović e di “Dino” Prijić vennero effettuate dall’unità militare italiana di carabinieri operante in Bosnia nel 1999, e da loro fornite alla magistratura bosniaca”.
Ed ecco la pista italiana: c’è un tal Roberto Delle Fave (che intervenne nell’inchiesta bresciana sull’eccidio già nel giugno 1993 sostenendo in modo più che fantasioso, e quindi discreditando, una ipotetica “pista italiana”). Fa di tutto, nel 93, per farsi passare da psicopatico ma i compagni di Guido non lo credono: operò in quegli anni in Bosnia e fu arrestato in Croazia nel settembre 1994 per spionaggio e traffico d’armi a favore di svariati gruppi neofascisti e neonazisti europei (questo arresto permette di dare un senso a iniziative riservate effettuate pochi giorni dopo da parte della Farnesina, relative all’eccidio del 29 maggio 1993). Ma sarebbero state ricostruite anche le vicende di Franco Nerozzi, una doppia vita da rispettato reporter di guerra (Rai, poi Mediaset), estremista di destra implicato in una serie di operazioni “coperte” – reclutamento di mercenari e traffici d’armi da/per la Bosnia (e successivamente in altre zone di guerra). Potrebbe aver conosciuto Delle Fave a Gospic nel gennaio e nel giugno 1992. La sua vera attività venne scoperta del tutto casualmente all’inizio degli anni 2000: l’accusa nei suoi confronti fu di “terrorismo internazionale”.
Considerando tutti questi elementi e gli interessi da parte italiana in quel conflitto «riteniamo degna di approfondimento e verifica l’ipotesi che l’ordine dell’eccidio del 29 maggio 1993 sia partito da centri di potere di Roma; che l’obiettivo dell’operazione era l’uccisione e l’occultamento dei cadaveri di tutti e cinque gli italiani presenti; che Roberto Delle Fave e Franco Nerozzi abbiano avuto un ruolo operativo nella vicenda; che l’obiettivo politico era il coinvolgimento militare italiano nel conflitto bosniaco al pari delle forze inglesi e francesi – scrive l’associazione – questa ipotesi permette una ricostruzione logica di tutti gli avvenimenti dal 29 maggio 1993 a metà giugno, fornendo un unico senso logico a una serie di avvenimenti finora inspiegabili (cadenzamento del sequestro e dell’eccidio degli italiani; autopsia non obbligatoria a Split; sparizione di tutti i proiettili; interessamento immediato e diretto dei vertici della Missione degli Osservatori Cee nei Balcani per “coprire” quanto avvenuto; scontro tra Gran Bretagna e Italia nella gestione dell’eccidio; cambiamenti nelle versioni di quanto avvenuto; ingombranti interessamenti del Sismi; l’intervento in loco di Luigi Caligaris; ecc…)». Si torna a chiedere l’acquisizione degli atti delle Procure di Verona e Venezia nei confronti di Franco Nerozzi, e degli atti della Procura di Rijeka nei confronti di Roberto Delle Fave e che venga reso pubblico il nome del responsabile dei servizi segreti militari italiani a Sarajevo all’epoca dei fatti, e gli atti che intercorsero tra il centro di Sarajevo e la centrale romana. «Infine auspichiamo che venga aperta un’inchiesta a carico dei soldati e della donna presenti al momento dell’eccidio».
Il convoglio viene assalito da una banda militare nei pressi di Gornji Vakuf, in Bosnia centrale. Guido, Fabio e Sergio vengono uccisi, Agostino e Christian si salvano scappando nei boschi. Zanotti ha scritto nel 2011 un libro, Jugoschegge, per raccontare una storia che parte proprio da quel 29 maggio: «La mia storia è questa, superstite a un eccidio il 29 maggio 1993 in Bosnia centrale, sulla “strada dei diamanti”, tra Bugojno e Gornji Vakuf, dove un convoglio di aiuti organizzato dal Coordinamento Iniziative di Solidarietà di Brescia venne assalito da una banda militare e tre volontari – Guido Puletti, Sergio Lana, Fabio Moreni – vennero uccisi. Ho continuato a viaggiare i Balcani, passando dalla Palestina a Genova del 2001, dai racconti dei profughi jugoslavi a quelli dei migranti forzati che attraversano il deserto e scappano dai luoghi di persecuzione in ogni parte del mondo. Una pratica quotidiana collettiva, tesa a sperimentare in concreto la possibilità di stare in contatto con l’altro, per interagire e quindi “contaminarsi”, sostenuta da un’etica della responsabilità che si è formata proprio con l’esperienza bosniaca».
Sergio Lana aveva 21 anni, corporatura robusta. Era alla sua prima missione in Bosnia, fino allora aveva portato aiuti ai campi profughi della Croazia, conosceva Fabio, aveva appena finito gli studi ed era figlio unico. Ai primi colpi di kalashnikov tentò una fuga disperata e brevissima. Anche Fabio Moreni, 40 anni, imprenditore, era atletico. Atletico e religioso. Aveva attraversato la Bosnia in lungo e in largo portando aiuti. Quella era la terza volta. Prima di morire chiese “perché”.
Guido Puletti, 40 anni, fisico minuto e una voglia di giustizia per gli oppressi che gli aveva già creato guai nella sua Argentina. Era un rivoluzionario moderno. Quel giorno non scappò, ritrovarono il suo corpo esattamente dove era, con tre fori, senza scarpe.