Cento passi anche in Sardegna, quando la memoria si fa impegno, lungo il percorso che il 21 marzo si concluderà a Bologna dove si svolgerà la ventesima giornata della memoria e dell’impegno, in ricordo delle vittime innocenti delle mafie coronato dallo slogan: la verità illumina la giustizia.
Un fitto programma di incontri e dibattiti in sedici centri dell’Isola promossi da Libera Sardegna e dal Centro Servizio per il Volontariato Sardegna Solidale, come ha illustrato il presidente regionale Giampiero Farru. Il giornalista Attilio Bolzoni firma autorevole del quotidiano la Repubblica che prima da cronista a L’Ora di Palermo e da inviato del giornale romano, da trentacinque anni racconta la Sicilia e la sua mafia, ieri pomeriggio ha incontrato gli studenti della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Ateneo Cagliaritano sul tema: come comunica la mafia. Un prologo peraltro delle attività seminariali che caratterizzeranno il laboratorio di comunicazione giornalistica on line diretto dalla professoressa Elisabetta Gola che inizierà le lezioni proprio nei prossimi giorni.
Dopo la presentazione della docente universitaria ed un appunto introduttivo del giornalista Vito Biolchini, le aspettative di un dibattito inedito su un tema specifico come la comunicazione nella criminalità organizzata, testimoniato da un folto auditorio di studenti e di alcuni docenti, non si sono fatte attendere. Dalle parole ai fatti quindi, ma sono state ancora le parole ad animare uno scenario complesso ed ancora irrisolto che tormenta vaste aree del Paese. La mafia fa il suo esordio nel 1865 addirittura con due “f” come la scrive e la descrive il neo prefetto di Palermo, non proprio di ferro come il suo futuro collega Cesare Mori, il Marchese Filippo Antonio Gualtiero in un rapporto al casalese ma del Monferrato: il Ministro dell’Interno Giovanni Lanza. Nasce e si sviluppa a ridosso dell’Unità d’Italia, come resistenza tra Stato vecchio e moderno, tra quello Borbonico e Piemontese scatenando un’autentica campagna di guerra, di un fenomeno per certi versi pretestuoso, come la lotta al brigantaggio e la deportazione dei ribelli al Nord, che recenti studi stanno riportando alla luce. Nasce anche così l’alibi della Sicilia dimenticata dal Governo che un secolo più tardi farà vittima illustre un altro Prefetto, il Generale Alberto dalla Chiesa dotato di pieni poteri solo a parole, in un dedalo di misteri ed intrighi che lo isoleranno fino alla morte con la sua giovane moglie, nel sospetto non del tutto dissolto di innominabili mandanti.
“Parole d’onore”, come il libro omonimo del 2008 di Bolzoni, dette da uomini dell’onorata società che da imprevedibili sgrammaticati hanno saccheggiato il vocabolario di una lingua, stravolto il significato stesso di onore, di quello della famiglia insieme ad altre parole di uso corrente diventate simbolo per accedere ad un mondo impenetrabile. Sorprendenti legami sintattici e linguistici che hanno impegnato a lungo sofisticati sistemi di indagine, prima di poter di istruire valide ipotesi accusatorie per la celebrazione dei processi. Le “parole di dentro” che oltre a dissimulare e mimetizzare il crimine, sono soprattutto secondo il giornalista di Repubblica “un esercizio di potere”. Rivelatrici in tal senso, nell’entroterra palermitano di Corleone, quelle di Gaetano Riina, fratello del “Capo dei Capi” Totò – titolo del libro scritto nel 1993 con il collega scomparso Giuseppe d’Avanzo – quando riferendosi al ruolo di Don Masino il grande pentito Tommaso Buscetta sbotta laconicamente: “ha visto il mondo e gli è scoppiato il cervello” l’avvertimento veloce di un crollo rovinoso, perché violato ed infranto quel codice per la mafia non sarà tutto più come prima.
“Le parole di fuori”, restano purtroppo quelle della stagione di grandi processi: art. 416 bis, art. 41 bis carcere duro – anche l’ordine duplicato a mezzo servizio degli articoli di legge, paiono un tardivo inseguimento della lunga lista di reati – ed ancora: inquinamento, infiltrazioni, radicamento, collusione, consapevolezza. Le scriveranno giudici come Giovanni Falcone e Francesco Borsellino “deportati” all’Asinara nell’estate del 1985 per redigere in sicurezza l’istruttoria del maxi processo. Le migliaia di pagine sopravvissute negli archivi dei tribunali al peso schiacciante dei polverosi faldoni d’inchiesta giungeranno a sentenza con sensibile ritardo ed al prezzo di un alto tributo di vite umane, come la vana ultima corsa del giovane giudice Rosario Livatino. Cataste di libri e fiumi di inchiostro di editoriali, hanno spesso alimentato l’antimafia delle chiacchere ed una casta di professionisti del settore. Ma chi ha fatto conoscere nel 1961 la mafia all’Italia, ha ricordato Boldoni con una dialettica efficace, è stato Leonardo Sciascia da Racalmuto col suo romanzo “il giorno della civetta”, consegnato sette anni più tardi alla notorietà del vasto pubblico del cinema con l’omonimo film firmato dal regista Damiano Damiani con gli attori Franco Nero e Claudia Cardinale. Ma se il libro del drammaturgo nisseno sfiorò i rigori della censura in un Paese che si ostinava a negare Cosa Nostra, lo sbarco alleato dell’estate del 1943 sulle isole di Pantelleria e Lampedusa e dopo sulle coste di Licata e Gela sotto il comando di “Ike” il futuro presidente degli Stati Uniti allora il semplice generale Eisenhower, non fece mai mistero dei provvidenziali buoni uffici di Lucky Luciano e Vito Genovese, già alle prese con la giustizia a stelle ed a strisce per ragioni di mafia, oltre il presagio del partito della trattativa.
La disponibilità diretta, informale del giornalista di Repubblica – non è mai venuta meno, in una impegnativa giornata densa di altri appuntamenti nelle scuole, ad un confronto serrato senza sottrarsi ad interrogativi su aspetti delicati e per certi versi imbarazzanti, come rassegna un assortito campionario delle complicità che hanno lambito, coinvolto gli stessi organi dello Stato e settori non marginali dell’informazione. “Nessuno sconto né per gli uni né per gli altri: il giornalismo ubbidiente è estraneo a qualsiasi deontologia che fa paio con quello più contiguo e schierato, ma senza dimenticare il dato prevalente e confortante, che la maggioranza è ancora di chi svolge la professione con serietà, non priva di innegabili rischi, senza ipocrisie e con il travaglio della paura, rinunciando anche ad opportune e raccomandate precauzioni, perché l’uso della scorta precluderebbe l’esercizio effettivo dell’attività giornalistica. Come sarebbe possibile un’inchiesta od addirittura un’intervista!”
Le parole, ma anche i silenzi, scanditi da interminabili pause, interrotti dalla calligrafia incerta dei messaggi allusivi od arroganti delle “palummedde”, le puntuali “lettere di scrocco” ed i pizzini rudimentali sms dal percorso lento e tortuoso, riuscendo però a mettere la sordina all’invasione delle cimici, disseminate anche nelle più isolate masserie sotto l’occhiuto sguardo di telecamere nascoste che appena scoperte gli volgono appena lo sguardo, perché non bisogna abbassare la testa quando si lancia una sfida temeraria allo Stato.
Verrà l’infamia dei pentiti! E sarà un terremoto per quel mondo sospeso tra la sua ferocia criminale ed un rituale di iniziazione ispirato da incredibili sentimenti religiosi. Bolzoni non ha dubbi: “quella mafia non esiste più”. Solo l’indifferenza può non accorgersi che sta sul mercato, una volta ripulita quotata e in Borsa, già da tempo in doppio petto ed al di sopra di ogni sospetto, tanto da farsi rilasciare i certificati antimafia per godere di finanziamenti di cui non ha bisogno. Sempre di più al Nord ed ovunque nella mappa dei grossi appalti da aggiudicarsi, passando per il mercato elettorale e mettendosi al servizio della politica che ha bisogno come loro di reciproci favori.
Senza dimenticare le parole impronunciabili dei silenzi, che non diventano subito omertà ma che conducono di sicuro all’isolamento come è già accaduto nel giornalismo, così pure a Pippo Fava, licenziato dall’ingombrante Giornale del Sud quando le sue parole di verità, senza rassegnarsi, ripresero voce con “I Siciliani” prima di essere messe a tacere da alcuni spari ovattati da una serata di pioggia del 1984, come in una struggente scenografia delle sue opere teatrali, magistralmente scritte con la stessa passione delle sue inchieste. Solo l’approssimarsi di altri appuntamenti previsti nel corso del pomeriggio in città, hanno posto fine all’incontro con Attilio Bolzoni. Ognuno deve svolgere al meglio il proprio compito, il messaggio finale, una squadra organizzata senza il blasone dei fuori classe può condurre in porto la partita, la sua stessa esperienza di lavoro quotidiano condivisa tra quattro colleghi “è più rassicurante”, in tutti i sensi, ed facile capirne i motivi.
Una chiave di lettura del dibattito inedita, si diceva in apertura, è forse anche questo il segreto delle parole, che ieri deliberatamente non ha percorso temi non meno suggestivi ed impegnativi, per certi versi scontati e sconvolgenti, come gli ipotetici rapporti tra la criminalità in Sardegna e quella di stampo mafioso.
Nel 2007 il numero 5 della Rivista Cooperazione Mediterranea edita dall’ISPROM – Istituto di Studi e Programmi per il Mediterraneo – allora diretta dal Professor Antonio Sassu, dedicava una monografia sulle devianze nell’Isola tra modernità e tradizione, ospitando i contributi di alcuni importanti studiosi tra cui, il Professor Pino Arlacchi (Addio Cosa Nostra, la vita di Tommaso Buscetta – 1994) già sottosegretario generale delle Nazioni Unite e presidente onorario della Fondazione Falcone che scriveva: “il motore principale della devianza in Sardegna non è la crescita dei mercati illeciti ma la crisi di integrazione sociale e di coesione sociale interna che dura da decenni …”
Basta conoscere il singolare per fare il plurale e così senza cambiare radice sono nate le “mafie” che come sostiene Don Ciotti: aggregano gli anelli deboli della società, li organizzano. L’esponente di Libera ha inoltre ricordato di recente come il 60% delle Università italiane ha sottoscritto protocolli per offrire all’interno dei loro corsi, opportunità di studio ed approfondimento per conoscere meglio il fenomeno mafioso. Certe turbolenze in alcune aeree dell’Isola forse oggi andrebbero meglio esplorate, riconsiderate anche con l’impiego delle parole giuste anche se scomode. Non è mai stato vero, come la mafia ha voluto far credere, che la migliore parola è quella che non si dice. Quella ad alta voce di una società civile e della legalità, scritta o digitalizzata, resta il suo autentico punto di forza e d’onore: la verità!
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