Rifugiati, quei corsi di italiano che non servono: qui arrivano analfabeti

I profughi hanno frequentato i programmi linguistici dei progetti Sprar, ma la qualità del loro italiano è pessima.

Rifugiati, quei corsi di italiano che non servono: qui arrivano analfabeti
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7 Aprile 2015 - 09.25


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C’è Amadou che ha chiamato il suo insegnante in preda a una crisi di panico: cercando di tradurre il permesso di soggiorno che gli era stato consegnato in questura, si è perso nell’ambiguità di alcuni termini in “burocratese” ed era arrivato così a credere che di lì a poco lo avrebbero rimandato in Senegal. E Moussa, che ha frequentato un progetto d’accoglienza a Frosinone, e fino a qualche tempo fa era convinto che quella cittadina di 40mila abitanti fosse in realtà la Capitale italiana: quando gli avevano comunicato la sua destinazione, gli era stato detto che lo avrebbero trasferito a Roma, e nessuno in seguito si era preoccupato di spiegargli la differenza. E c’è Mahmoud, che non sapeva leggere o scrivere nemmeno nella sua lingua madre, ma in tasca aveva un attestato che ne certificava la conoscenza dell’Italiano. Le loro storie arrivano dalla scuola “Giordano Bruno”, attiva all’interno delle palazzine dell’ex Moi, il villaggio olimpico che due anni fa è stato occupato da centinaia di profughi fuggiti dal caos della crisi libica. Sulle coste siciliane alcuni di loro ci sono arrivati da laureati; mentre altri, come Mahmoud, erano pressoché analfabeti. Ma quando, qualche mese dopo, hanno ricevuto l’attestato che ne certificava la conoscenza dell’Italiano, quasi nessuno è stato in grado di capire cosa ci fosse scritto. Perché, stando a quanto denunciato sempre più spesso da profughi e attivisti in tutto il paese, i programmi linguistici all’interno dei progetti Sprar sarebbero spesso insufficienti anche a raggiungere un livello comunicativo minimo. “I programmi d’accoglienza – spiega Marco,volontario della “Giordano Bruno” – hanno una durata che va dai sei agli otto mesi, e i corsi di Italiano occupano circa due ore a settimana. In questo modo, lo stato pretende di insegnare la lingua a ragazzi che, nei casi più gravi, non sono nemmeno in grado di scrivere il loro nome. E che per questo non riescono a esercitare i propri diritti, dei quali hanno un’idea molto vaga”.
Proprio da una barriera linguistica è nato il comitato di solidarietà che ha dato inizio all’occupazione, mentre, nel febbraio 2013, in tutta Italia veniva decretata la fine dei progetti d’accoglienza legati all’emergenza nord Africa. “A Torino – ricorda Giorgio, attivista del Comitato – volontari e insegnanti che lavoravano nei centri sociali e nelle associazioni sparse sul territorio iniziarono a ricevere decine di richieste, tutte identiche, dai rifugiati in uscita dai progetti. Cercavano tutti qualcuno che potesse tradurre i documenti che avevano appena firmato, e che da soli non erano in grado di leggere. E fu così che centinaia di loro scoprirono che nel giro di qualche settimana si sarebbero ritrovati senza un tetto sulla testa”. Oggi nelle palazzine dell’ex Moi dormono quasi 800 profughi, che da tre mesi aspettano lo sgombero dopo il sequestro preventivo disposto dal tribunale di Torino. Molti di loro sono arrivati dalla strada, non avendo trovato casa o lavoro allo scadere del periodo di prima accoglienza; ma per qualcuno imparare la lingua ha comportato la conquista dell’indipendenza economica. “Non parliamo di grandi numeri – spiega Marco – ma qualche soddisfazione ce la siamo presa. Su 750 rifugiati, ci sono circa cento persone che frequentano attivamente la scuola: grazie alla collaborazione con alcuni Cpt (centri territoriali per l’istruzione e la formazione), quasi tutti hanno preso il diploma di terza media, che è essenziale per trovare un lavoro decente. Arrivati a quel punto, molti chiudono i libri: dopo l’esame, ad esempio, uno dei nostri allievi è riuscito a ottenere l’assunzione nell’officina di un fabbro , e ora si è trasferito in un appartamento a settimo torinese. Ma qualcuno ha scelto di continuare a studiare”.

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Così, capita che un insegnante del Moi riceva una chiamata da Amin, “che frequenta le superiori e voleva una mano a capire l’italiano aulico della Divina commedia” continua Marco. “È chiaro – spiega – che queste persone hanno esigenze molto diverse tra loro: alcuni hanno dovuto ricominciare da capo l’università, perché quando i trafficanti li hanno costretti a distruggere i loro documenti, anche gli attestati di laurea sono andati perduti, e così non hanno mai ottenuto il riconoscimento del titolo. Con altri, invece, siamo dovuti partire dal grado zero della lingua: abbiamo attivato un laboratorio di alfabetizzazione, perché non avevano mai imparato a leggere o a scrivere. Un ragazzo in particolare è stato un outsider per tutta la vita, perché anche a casa non aveva mai frequentato un giorno di scuola: una delle nostre volontarie lo segue personalmente, e lo sta preparando all’esame di terza media. Mi sembra evidente che, di fronte a situazioni del genere, le due ore a settimana previste nella maggior parte dei progetti Sprar non possano servire a molto”.

Nel frattempo, con gli allievi più anziani, all’ex Moi sono iniziate le lezioni “on demand”: “un giorno – spiega Marco – alcuni ragazzi ci hanno chiesto di parlargli della Gioconda; quindi siamo finiti a discutere di Leonardo Da Vinci e di storia dell’arte, un argomento sul quale siamo tornati più volte. Spesso cerchiamo di uscire dalle palazzine, portando i ragazzi a visitare musei o luoghi di interesse; e una volta a settimana organizziamo un cineforum, durante il quale vengono proiettati film in italiano, ma anche film nigeriani e senegalesi, opportunamente sottotitolati”. “Il punto – spiega Marco – è che la nostra è un’organizzazione informale, basata su un rapporto tra pari: questo potrà sembrare un concetto ideologico, ma invece è fondamentale anche per gli obiettivi didattici, perché il primo strumento per apprendere una lingua è proprio quello relazionale. C’è questo ragazzo, Yakouba, che ha passato due anni in un centro d’accoglienza: non ha imparato una parola di Italiano, ma i magrebini con cui viveva sono riusciti a insegnarli il francese. Con chi frequenta la scuola noi trascorriamo parecchie ore a settimana, e alla fine il rapporto va molto oltre quello che può esistere tra allievo e insegnante: se hanno bisogno di una mano, ci telefonano e cerchiamo di aiutarli”.

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E così, capita che i ragazzi vengano a conoscenza anche di episodi di sfruttamento: come nel caso di Souley, che dal giugno scorso aspetta che il suo datore di lavoro gli paghi le ultime 400 euro per l’ultima raccolta stagionale a Saluzzo. “Io non lo sapevo – spiega – ma con i tre mesi di lavoro che ho fatto, avrei avuto diritto a percepire la disoccupazione agricola. Peccato che il mio datore di lavoro, che conosco bene e consideravo un amico, mi abbia fatto un contratto per 5 giorni, a fronte di 90 effettivi. Sono stati proprio i ragazzi della scuola a spiegarmi dov’era la fregatura: ma i documenti, almeno, sono riuscito a leggerli da solo. Anche se protestare, finora, non è servito a nulla” (mas)

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