di Carlo Dore jr.
“Può essere un’interpretazione dell’Ulivo affermare che i sindacati non vanno ascoltati e che tutti i corpi intermedi, nessuno escluso, vadano distrutti o indeboliti? Spesso vanno doverosamente contrastati, ma ascoltati sempre. L’Ulivo è stato un progetto inclusivo che ha sempre cercato di mettere insieme le diverse identità, come unica condizione per chiudere le esperienze negative del passato e creare la condizione più importante di una democrazia: una diffusa partecipazione unita ad una prospettiva di una reale alternanza di governo”.Nel libro – intervista curato da Marco Damilano, Romano Prodi ripercorre, con lo sguardo rivolto al passato ed i pensieri sempre proiettati verso il futuro, le tappe fondamentali della sua Missione incompiuta. Dalla cattedra di Economia e politica industriale presso l’Università di Bologna agli studi condotti sotto la guida di Andreatta, dalla presidenza dell’IRI al Ministero dell’industria, da Palazzo Chigi a Bruxelles fino alle porte del Quirinale, riprendono forma le speranze, i sogni, le illusioni e i fallimenti di una generazione che poteva davvero cambiare l’Italia, prima di rassegnarsi alla retorica dell’Uomo solo al comando.
Sì, potevano davvero cambiare l’Italia i protagonisti di quella Missione incompiuta, girando con un pullman tra le tensioni di un Paese squassato dalla tempesta di Tangentopoli, ferito dalle bombe e dal susseguirsi degli scandali, in parte già ipnotizzato dall’incanto catodico del miracolo italiano, dallo strato di cerone che patinava il perverso connubio tra potere economico e rigurgiti di autoritarismo destinato ad innervare il ventennio berlusconiano. La forza delle idee contro un’idea di forza, la serietà contro l’illusione, la partecipazione contro l’egocratismo: quella doveva essere l’Italia dell’Ulivo, quella doveva essere la nostra Italia.
Frammentazione e mancanza di pensieri lunghi, scelte legislative improvvide (specie in ordine alla mancata regolamentazione del conflitto di interessi), il tentativo impossibile di ricondurre all’alveo della normale dialettica democratica le varie componenti di una destra che già palesava la propria struttura a-costituzionale hanno pregiudicato l’attuazione di quel progetto politico, già di per sé forse condizionato da un originario errore di impostazione, identificabile nella tendenza a superare la centralità dei partiti per favorire diverse forme di partecipazione, nella convinzione che i “partiti delle tessere” non fossero più in grado di assecondare le istanze di rinnovamento che pervenivano da alcuni settori del popolo del centro-sinistra, nell’illusione che il “partito leggero” di impostazione clintoniana potesse favorire la commistione tra radici culturali diverse.
La ricostruzione storica si salda alla stretta attualità dinanzi all’emersione di due fondamentali interrogativi: può il PD considerarsi la naturale evoluzione del progetto dell’Ulivo? Può Renzi accreditarsi come il legittimo erede di quella stagione? La risposta di Prodi gronda dell’amarezza di chi ha speso parte della sua vita in una missione destinata a rimanere incompiuta: “Senza l’Ulivo non ci sarebbe stato il PD. In questo senso si può dire che il PD ne è figlio. Un figlio che ne ha ereditato l’obiettivo di mettere insieme tutti i riformismi. Questa è l’eredità dell’Ulivo, ma il PD la valorizza a giorni alterni”.
L’Ulivo voleva unire, non dividere; voleva includere, non escludere; voleva impegnare il background culturale costituito dalla tradizione della sinistra progressista e del cattolicesimo democratico per costruire un ponte verso il futuro, non risolvere le sfide della modernità in un brutale confronto generazionale. No, il PD della post-Leopolda, il partito “del” leader e “per” il leader non condivide né lo spirito né i valori che ispiravano il disegno di Prodi. Costituisce semmai il prodotto delle contraddizioni, dei limiti e degli errori dei protagonisti di quel cambiamento mancato, la prevedibile (ancorché evitabile) conseguenza del tentativo di imporre il “partito leggero” sulle più tradizionali forme di militanza politica, l’effetto collaterale che residua tra le macerie di una straordinaria Missione incompiuta.