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di Onofrio Dispenza
I nuovi palermitani, la vecchia Palermo. Due vicende, una di cronaca, l’altra che non fa notizia. L’una e l’altra raccontano una città, così com’è, tra la ricorrenza di Capaci e quella di via D’Amelio.
Partiamo dalla cronaca. Da nuovi palermitani, un gesto di coraggio e di rivolta. La mafia dei quartieri ci ha provato, loro si sono ribellati. Un commerciante ha raccontato: “Emanuele Rubino, che poi avete arrestato per il colpo di pistola sparato al giovane del Gambia, era entrato nel mio negozio e aveva estratto una pistola dalla cinta dei pantaloni. Me l’ha puntata al collo, dicendo: “Guarda che io non scherzo, stai attento, se vuoi stare qua non devi guardare e sentire nulla perché a Ballarò ci siamo noi”. Parole chiarissime. L’ultimo episodio, meno di un mese fa. “Erano circa le 20 quando sono entrati Giuseppe ed Emanuele Rubino – ha raccontato un altro commerciante – uno teneva una pistola di colore argento in mano; hanno aperto la cassa e mi hanno messo le mani in tasca, ma non hanno trovato niente”. Un altro racconto del terrore a Ballarò: “Io ho sempre pagato perché avevo paura delle ritorsioni. Qui lo sanno tutti, chi si ribella viene massacrato di botte. Nel quartiere gira la voce che questi sono dei mafiosi”. I fratelli terribili di Ballarò, i fratelli Rubino, volevano, dunque, che i commercianti benaglesi pagassero e ,camminassero a testa bassa: “Anche per uno sguardo di troppo si finiva male” I racconti della paura sono tanti, uno simile all’altro. Si raccolgono, ora che la comunità del Bangladesh di Palermo ha deciso di alzare la testa e denunciare il clan del “pizzo”.
Partiamo dalla cronaca. Da nuovi palermitani, un gesto di coraggio e di rivolta. La mafia dei quartieri ci ha provato, loro si sono ribellati. Un commerciante ha raccontato: “Emanuele Rubino, che poi avete arrestato per il colpo di pistola sparato al giovane del Gambia, era entrato nel mio negozio e aveva estratto una pistola dalla cinta dei pantaloni. Me l’ha puntata al collo, dicendo: “Guarda che io non scherzo, stai attento, se vuoi stare qua non devi guardare e sentire nulla perché a Ballarò ci siamo noi”. Parole chiarissime. L’ultimo episodio, meno di un mese fa. “Erano circa le 20 quando sono entrati Giuseppe ed Emanuele Rubino – ha raccontato un altro commerciante – uno teneva una pistola di colore argento in mano; hanno aperto la cassa e mi hanno messo le mani in tasca, ma non hanno trovato niente”. Un altro racconto del terrore a Ballarò: “Io ho sempre pagato perché avevo paura delle ritorsioni. Qui lo sanno tutti, chi si ribella viene massacrato di botte. Nel quartiere gira la voce che questi sono dei mafiosi”. I fratelli terribili di Ballarò, i fratelli Rubino, volevano, dunque, che i commercianti benaglesi pagassero e ,camminassero a testa bassa: “Anche per uno sguardo di troppo si finiva male” I racconti della paura sono tanti, uno simile all’altro. Si raccolgono, ora che la comunità del Bangladesh di Palermo ha deciso di alzare la testa e denunciare il clan del “pizzo”.
La mafia dei nuovi boss, quelli che circolano in città con la pistola alla cinta, mostrandola a chi solo prova a ribellarsi, usandola anche solo per uno sguardo che non piace, come è successo recentemente. Una prima ondata di racconti, seguita da una prima ondata di arresti. E altri commercianti parlano e mettono in discussione il clan che aveva guardato con interesse alla rete commerciale che la grande comunità orientale ha fatto crescere a Palermo. Città aperta, ospitale, che non conosce discriminazione, Palermo fa i conti con uno dei tanti volti della mafia. E a ribellarsi, dopo i giovani e tanti giusti, sono i nuovi palermitani venuti da lontano e che qui hanno trovato il luogo adatto per ricominciare. Del resto, Palermo storicamente è abituata al “mélange”, alla mescolanza. La sua storia, la sua capacità di resistere, la sua bellezza sono frutto di queste aperture. Nel fatto di cronaca c’è una manciata di razzismo, la spolvera la nuova mafia, la sposano questi piccoli boss, giovani e violenti, che chiedono soldi ed anche che si abbassi lo sguardo al loro passaggio. Atteggiamento forse frutto di cose viste in tv, chissà. Sono pronti a sparare, come è stato contro il giovane del Gambia, ridotto in fin di vita, ma immediatamente circondato dall’affetto e dalla solidarietà della Palermo migliore.
Mentre gli investigatori raccolgono altri racconti, individuano altre responsabilità e smontano uno ad uno i meccanismi di coercizione impiantati a Ballarò e in altri quartieri, compare l’altra Palermo, la vecchia Palermo, quella disposta a compiacere.
La vicenda che non fa notizia. Fa capolino in un piccolo episodio che non fa cronaca. Lo accenniamo soltanto, vale per quel che è, non ha bisogno di dettagli.
Eccolo. Gli ex di un prestigioso istituto scolastico creano un gruppo su WahtsApp per incontrarsi dopo tanti anni. Uno dopo l’altro si raccolgono tante adesioni, tornano emozionanti amicizie di un tempo. Un tempo ragazzi, ora professionisti, tanti impegnati in professioni delicate, tra di loro storie personali e familiari spese sul fronte del lavoro e della lotta alla mafia. Il gruppo cresce; cresce l’emozione di ritrovarsi, di cercare nel viso dell’altro il compagno di banco, la compagna di studi. Bello, c’è attesa. Così fino a quando un imprudente, con leggerezza, e gratuitamente, fa entrare nel gruppo un nome ingombrante, uno che ha dato filo da torcere agli investigatori di casa nostra e a quelli d’Oltreoceano. Uno che faceva da cerniera al viaggio tortuoso dei capitali realizzati illegalmente. A questo punto, dal gruppo di WahtsApp, uno alla volta, si sfilano in tanti. Ma c’è pure chi non ci pensa e saluta e ossequia l’ingombrante nome. E lo fa con parole che gli riconoscono la storia criminale. I due volti di Palermo, tra un 23 maggio e un 19 luglio.