I misteri del delitto Pasolini e gli indizi che hanno portato a Johnny lo zingaro

Una serie di testimonianze durante le indagini hanno fatto emergere la figura di Giuseppe Mastini

Nella foto, Pier Paolo Pasolini
Nella foto, Pier Paolo Pasolini
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1 Luglio 2017 - 16.12


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di Giovanni Giovannetti

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Il 28 settembre 1975 sul “Corriere della Sera” esce questo celebre articolo di Pier Paolo Pasolini: «Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il progetto della “strategia della tensione” (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente). Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna». Eccetera.
Questo e altro scrive, un mese prima di venire ammazzato. Per Dario Bellezza (l’amico-poeta-segretario di Pasolini), «ne sono più che convinto, c’è stato un mandante ben preciso che va cercato fra coloro per i quali Pasolini chiese il processo. Un potente democristiano. Pasolini mi disse un giorno, poco prima di morire, che aveva ricevuti dei documenti compromettenti su un notabile Dc. Io invero gli chiesi chi era, e che uso ne voleva fare. Mi rispose che non era un ricattatore. Non ne avrebbe fatto nessun uso. Il potente democristiano era però amico dei neofascisti, della polizia. Bastava, come si vede in seguito per storie di Mafia e di spionaggio, che ordinasse. Controllava i servizi segreti, sulle sue mani c’era la Gladio, organizzata dalla Cia in funzione anticomunista, lo si sarebbe saputo solo in questi ultimi anni. Pasolini poteva essere eliminato in qualsiasi momento. Come si permetteva di chiedere un processo a chi governava l’Italia?» (Il poeta assassinato, Marsilio 1996, p. 23)
Bellezza non è il solo a parlare di dossier al veleno: secondo l’ex senatore democristiano Graziano Verzotto, solitamente ben informato, Pasolini era entrato in possesso di un dossier che andava assolutamente recuperato, eliminando chi lo avesse letto.
A carte scottanti fa cenno anche Antonio Pinna junior (nipote e omonimo di uno tra i principali informatori “dal basso” di Pasolini), conversando con Silvio Parrello: «Mio zio mi ha detto che Pasolini è stato ammazzato perché aveva per le mani documenti che scottavano. Un carteggio, in particolare, veramente esplosivo. Ci sono di mezzo anche gli americani, Silvio» (ne ha scritto David Grieco il 30 giugno su Globalist).
A quale notabile democristiano e a quali documenti compromettenti alludono Bellezza, Pinna e Verzotto? A Giulio Andreotti e ai “fondi neri” Italcasse negli anni 1972-1974? (nel 1979 ammazzeranno il giornalista e ricattatore Mino Pecorelli, intenzionato a divulgare la parte mancante del memoriale Moro su Gladio e Italcasse). O all’anonimo ciclostilato del novembre 1972, All’insegna della trama nera, nel quale per la prima volta si accenna a Gladio («…il reparto guastatori che si addestra in Sardegna ed ha disponibilità illimitate di esplosivo…») adombrando contiguità fra Andreotti e “fascisti” bombaroli? O alla versione integrale del dossier-salvacondotto di Gian Adelio Maletti sul golpe Borghese (il cosiddetto “malloppone”, come lo aveva definito Pecorelli), contenente i nomi dei correi che di concerto con la Cia trescarono per uno Stato forte? (dossier che Andreotti manipolò cancellando parte dei nomi – guarda caso, alcuni dei piduisti coinvolti – per usarlo a scopo di ricatto). Qualunque cosa fossero, quei documenti così «compromettenti su un notabile Dc» non sono più tra le carte di Pasolini.
Sembra ben saperlo l’onorevole Verzotto, il presidente dell’Ente minerario siciliano in rapporti d’amicizia col boss mafioso Giuseppe Di Cristina; quel Verzotto indicato tra i possibili mandanti dell’omicidio del giornalista Mauro De Mauro, e prima ancora coinvolto nelle trame sull’eliminazione del presidente dell’Eni Enrico Mattei. Fatto sta che quel carteggio esplosivo è stato infine «recuperato, eliminando chi lo avesse letto».
Se poco o nulla è sin qui emerso sui mandanti, qualcosa ormai sappiamo sul commando dei massacratori di Pasolini, un bel misto di picchiatori fascisti e malavita organizzata: c’era Pino Pelosi, c’erano quello «alto, grosso e con la barba folta» dall’accento catanese (come lo ha dipinto Pelosino) e i due in auto con lui; c’erano i fratelli Borsellino e almeno un altro alla guida della GT 2000 di Antonio Pinna senior «identica a quella di Pier Paolo»: almeno sette-otto persone. Ma più d’una traccia porta anche al sedicenne Giuseppe Mastini alias Johnny lo zingaro, pluriomicida ergastolano vicino alla destra fascista, nonché amico di Pelosi. Lo stesso Mastini avrebbe vantato l’uccisione di Pasolini in più occasioni: con l’ergastolano Pasquale Mercurio nelle carceri di Spoleto e di Voghera e con un altro detenuto, Valter Carapacchi, nel carcere romano di Rebibbia; ma la procura di Roma li ritenne «scarsamente credibili».
Nel luglio 2000 il “pentito” Damiano Fiori riferirà alla Direzione distrettuale antimafia di Milano d’aver saputo da Aldo Mastini, zio di Giuseppe, che il nipote aveva ammesso «di avere partecipato all’omicidio in danno di Pasolini» (parrebbe suo il plantare ritrovato nell’auto dello scrittore, nonché un anello rivendicato dal Pelosi); «che le persone che parteciparono all’omicidio furono quattro (tre più il ragazzo che si assunse la responsabilità esclusiva)» e che «gli altri tre avevano fatto ricadere la responsabilità sul minorenne (Pelosi) proprio in quanto minorenne “perché avrebbe preso poco e sarebbe uscito presto”». Stando a Fiori, Johnny era anche «passato con l’auto sul cadavere di Pasolini». Quest’ultimo particolare lo segnala anche un testimone come Antonio Pinna senior, presente tra i massacratori all’idroscalo di Ostia: la macchina che ha ucciso Pasolini era sì la sua, però al volante – lo ha detto lui stesso al nipote – c’era Johnny lo Zingaro.
Il 30 ottobre 2015 la cugina di Pasolini Graziella Chiarcossi ha rivelato a “Repubblica” che la notte del massacro l’auto dello scrittore venne abbandonata sulla Tiburtina, guarda il caso proprio nei pressi dalla roulotte di Johnny lo zingaro (Chiarcossi: «ero sveglia quando bussarono: cercavano Pier Paolo, mi dissero che avevano trovato l’auto sulla Tiburtina»), molto distante dall’idroscalo di Ostia smentendo clamorosamente ciò che disse Pelosi nel novembre 1975 («ero stravolto e ho impiegato del tempo per metterla in moto e per accendere le luci. Nel fuggire non so se sono passato o meno con l’auto sul corpo del Paolo») e il rapporto dei Carabinieri di pattuglia Antonino Cuzzupè e Giuseppe Guglielmi steso subito dopo il delitto – che dunque sarebbe deliberatamente falso – e accreditando per estensione l’ipotesi che Pelosi si fosse allontanato a piedi, abbandonato dai carnefici.

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