Era un martedì caldo quello dell’11 agosto del 1998, l’afa era opprimente come solo a Cagliari, città di mare e di stagni, sa essere. Alle 19,50 al Palazzo di giustizia, nei corridoi semi deserti che ho percorso sin da piccola quando andavo a trovare mia zia che faceva il cancelliere, si sente uno sparo. E’ una campana a morte per mille segreti che nessuno conoscerà mai. Luigi Lombardini si era ucciso nel suo studio con un colpo di pistola in bocca. Quella pallottola è stata un punto e a capo per un’Isola dove se nascevi prima e fino agli anni “80, la tua terra era terra di sequestri e solo dopo di spiagge incantate.
Quello sparo chiude un’epoca e mette a tacere mille misteri che solo il giudice poteva svelare. Lui che aveva dedicato la sua vita a sconfiggere quella “zona grigia”, quello strato di popolo che con l’Anonima sequestri in qualche modo ci conviveva senza tanti problemi.
Prima di quello sparo ci furono cinque ore d’interrogatorio. E prima ancora ci fu l’ultimo eclatante e più feroce sequestro, quello di Silvia Melis, giovane madre e imprenditrice.
Viene catturata mentre ritorna nella sua casa in macchina. I banditi la portano via dopo averla legata, bendata ed imbavagliata, lasciando sull’auto il piccolo Luca, di quattro anni. Il sequestro dura 265 giorni: il 15 luglio la trattativa con i rapitori era entrata nella fase finale, ma l’incontro con i banditi per il pagamento del riscatto non ebbe tuttavia luogo. Silvia Melis viene trasferita in una tenda per gli ultimi 74 giorni, fino a quando l’11 novembre dello stesso anno riesce a liberarsi dalla prigione e viene trovata vicino a Nuoro sul ciglio di una strada provinciale da due agenti in borghese.
La sua liberazione la vengo a sapere alla fine di un allenamento in piscina, avevo 12 anni, scendo nell’atrio della palestra, capelli ancora umidi, la stanchezza di trenta vasche a dorso, stile libero e rana. Un televisore che tutti guardano in silenzio annuncia che Silvia è stata liberata. La Sardegna che aveva iniziato a vergognarsi di quella pratica barbara ricomincia a respirare dopo mesi di apnea. Gli striscione con scritto “Liberate Silvia Melis” vengono tolti dai palazzi pubblici e privati. Siamo liberi tutti, fino al prossimo sequestro.
Ma torniamo a quell’11 agosto. Il pool di Palermo cerca di capire chi sono i mandanti di quel rapimento. Il giudice-collega diventa l’imputato Lombardini. Lui, lo sceriffo del Supramonte, l’ex stratega della lotta ai rapitori viene accusato di avere un ruolo ambuguo sia nelle trattative sia nel rilascio della imprenditrice di Tortoli.
Non sarà mai fatta luce sull’ennesima sospetta connivenza tra criminalità e pezzi importanti ma non autorizzati dello Stato.
Prima dell’epilogo e del silenzio il magistrato ha risposto a due lunghissimi interrogatori da parte dei pm palermitani guidati dal procuratore nazionale antimafia Giancarlo Caselli. Poi quel colpo e il buio.
L’Italia si spaccherà. Chi starà con Lombardini, 22 anni passati a fare guerra ai banditi e poi “umiliato” dalla stessa magistratura che aveva servito con “onore” e “dedizione”. E chi invece interpreterà quel suicidio come una ammissione di colpa, un tentativo di cancellare le prove di un ruolo di cui lui stesso negli ultimi minuti della sua vita si era vergognato. Non sapremo mai la verità. Ancora una volta in Italia calerà il silenzio e la Sardegna volterà pagina. L’Anonima da quello sparo non farà più così paura…
Resteranno per mesi vicino al Palazzo di giustizia le scritte “Caselli assassino”.