Quarant’anni fa la legge 180. La rivoluzione della psichiatria targata Basaglia
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Quarant’anni fa la legge 180. La rivoluzione della psichiatria targata Basaglia

Attraverso le storie di chi ha subito contenzione ed elettroshock, un excursus sulla salute mentale oggi.

Quarant’anni fa la legge 180. La rivoluzione della psichiatria targata Basaglia
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11 Maggio 2018 - 09.32


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 “Giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro”. Così scriveva lo psichiatra Franco Basaglia nel 1979, l’anno successivo all’approvazione della legge 180, la prima al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici e a stabilire un principio fondamentale: tutte le persone con disturbi mentali hanno uguale diritto di cittadinanza, un diritto che per secoli la psichiatria aveva negato. Solo 20 anni dopo, tra il 1994 e il 1999, con il “Progetto obiettivo”, si è arrivati all’effettiva abolizione degli ospedali psichiatrici. L’applicazione della legge fu infatti demandata agli enti locali, che ne diedero attuazione con tempi e modi diversi. Con la legge 180 fu anche introdotto il trattamento sanitario obbligatorio. Nel 1975, invece, erano stati istituiti gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), a sostituzione dei manicomi criminali. Nel 2010 una commissione parlamentare di inchiesta ha accertato le condizioni di estremo degrado di questi istituti e, dopo vari rinvii, gli Opg sono stati chiusi definitivamente solo nel marzo 2015. Al loro posto sono state aperte le Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Di tutto questo si occupal’inchiesta curata per Redattore Sociale da Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala, e pubblicata sul numero di marzo della rivista SuperAbile Inail.

“Basaglia aprì le porte per davvero” rimarca Peppe Dell’Acqua, psichiatra e suo allievo. “Ma dietro questo atto c’è un significato che va oltre. Nel momento in cui si riconosce nel paziente psichiatrico una persona, diventa assolutamente insopportabile continuare a chiuderlo nelle gabbie o a contenerlo. Quando si mette tra parentesi la malattia, si scopre l’altro, l’esserci. Questo ha a che vedere prima che con i diritti, con la libertà”. Quando nel 1980 un giornalista chiese a Basaglia dove andavano messi i malati di mente, lui rispose: “Da nessuna parte”.

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Anche se i manicomi erano stati chiusi, restavano ancora in piedi le logiche che ne avevano permesso la costruzione e il mantenimento: molti pazienti psichiatrici finirono in altre strutture – “gabbie dorate”, le chiamava Basaglia – in cui relegare il diverso. “Occorre violentare la società, obbligarla ad accettare il folle e aiutare la comunità a capire cosa significa la pazzia”, insisteva lo psichiatra veneziano. Non basta, insomma, una legge per liberarsi dalla paura dell’altro. 

Psicofarmaci e porte chiuse: la salute mentale oggi. Alice Banfi, classe 1978, è una pittrice e vive con la sua famiglia a Camogli, vicino Genova. Ma per sette anni, da quando ne aveva 19, è stata ricoverata in tredici comunità terapeutiche e Spdc, i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura degli ospedali. La diagnosi era disturbo della personalità borderline in anoressia, con tendenze autolesioniste. “Pregavo mia madre di non lasciarmi morire in manicomio”, racconta. Ore di ozio, psicofarmaci e contenzione meccanica, praticata con fascette di cuoio e scotch intorno a polsi e caviglie o con un lenzuolo stretto intorno alle spalle, il cosiddetto “spallaccio”. “È come essere stuprati, c’è una violazione del corpo e dell’anima terrificante. Vieni braccato dagli infermieri e trasportato in un letto. Ti legano mani e piedi con delle fascette e ti lasciano lì. Ho passato così tante ore. È qualcosa che può distruggerti”. Legata anche per giorni, senza possibilità di alzarsi, andare in bagno, girarsi nel letto. Contenuta per aver lanciato un oggetto, per aver risposto male a un infermiere, per evitare che si tagliasse.

Dopo la legge Basaglia, i pazienti che hanno un disturbo mentale o che vivono un momento di fragilità sono presi in cura dal Dipartimento di salute mentale (Dsm)delle Asl, ciascuno dei quali dotato di un Centro di salute mentale (Csm), strutture residenziali o semi-residenziali e Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) negli ospedali, una sorta di pronto soccorso per chi ha immediato bisogno di aiuto ed è grave. Ad aiutare i Dsm ci sono poi associazioni e cooperative sociali, che si occupano di gestire tempo libero, inserimenti lavorativi, case famiglia o gruppi appartamento per tutti quelli che sono fuori e non vivono per conto proprio (che sono la maggioranza). In Italia ci sono 329 Spdc, ma solo una trentina hanno deciso di tenere le porte aperte e dire no alla contenzione. L’unica indagine sistematica sul numero di Spdc no restraint, cioe` non coercitivi, è stata condotta nel 2004 dall’Istituto superiore di sanita`. Nel 2006 è stato fondato in Italia un Club di Spdc no restraint, a cui hanno aderito 21 reparti. I dati disponibili si basano comunque su un’autodichiarazione e basta che cambi primario o caposala perché l’approccio sia diverso. “Se il manicomio era il lager, i servizi psichiatrici sono la fabbrica della cura mentale”, spiega Piero Cipriano, psichiatra attualmente in servizio in un ospedale di Roma. “Ho sempre lavorato in Spdc coercitivi. Con la legge Basaglia abbiamo chiuso i manicomi, ma non basta una legge per abolire la manicomialità. Oggi assistiamo a una sorta di manicomio diffuso, in cui la società continua a escludere la persona diversa. La cura si risolve generalmente attraverso due azioni: la somministrazione di psicofarmaci e sedativi, e il contenimento dei pazienti. Una vera e propria fabbrica dove lo psichiatra è lo specialista che si occupa di ‘aggiustare’ una macchina biologica rotta all’interno di una catena di montaggio”.

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Eppure aprire le porte e non contenere è possibile. Vito D’Anza, primario del Spdc di Pescia, in Toscana, responsabile del Centro di salute mentale di Montecatini e portavoce del Forum salute mentale, sostiene che “i servizi psichiatrici sono la cartina di tornasole di come funziona l’intero Dipartimento: non sono loro a essere restraint o no restraint, ma l’intero Dipartimento di salute mentale del territorio”. D’Anza è arrivato a Montecatini nel marzo 2005, quanto il reparto era ancora a porte chiuse: un giorno ha appeso al muro una nuova disposizione di servizio che vietava le contenzioni. “Ho lasciato al personale del reparto il mio numero di cellulare dicendo che potevano chiamarmi se non fossi stato in turno. Il primo anno ho ricevuto solo due telefonate”. Le fughe dal reparto registrate in 12 anni sono state 16. “Di questi, qualcuno e` tornato per conto suo e alcuni siamo andati a riprenderli a casa. Altri, che avevano difficolta` ad accettare il ricovero, abbiamo deciso di assisterli a domicilio”. La media di fughe dagli Spdc in Italia, riferisce il primario, è di 2,5 persone al mese, quindi circa 30 persone all’anno: “Noi in dieci anni avremmo dovuto registrare almeno 300 fughe”. Come ricorda Alice, essere stata in Spdc a porte chiuse e aver subito contenzione ha aggravato il suo malessere. L’unica volta che ha sperimentato la “libertà terapeutica” descritta da Basaglia è stato a Novara, quando è stata ricoverata in un reparto senza sbarre. “Ero talmente abituata a stare in posti violenti e chiusi che scappavo dalla finestra anche se la porta era aperta. Non c’era nessun bisogno di darmi delle costrizioni. Quando la libertà è venuta a mancare, ho dovuto lottare contro qualcosa che non c’entrava niente con il mio star male. Oggi sono una mamma e una moglie e posso dire di sentirmi una persona libera”. Del suo passato restano i libri autobiografici, i quadri e le cicatrici indelebili che la contenzione meccanica lascia nell’animo. 

*Foto di Neva Gaspari, su gentile concessione del Dipartimento Salute Mentale di Trieste, elaborazione grafica di Diego Marsicano

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