Lia Pipitone, la donna che si ribellò alla mafia e che ancora fa paura a Cosa nostra
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Lia Pipitone, la donna che si ribellò alla mafia e che ancora fa paura a Cosa nostra

Nell'anniversario dell'assassinio manomessa la saracinesca di una onlus, la "Millecolori" aperta nel nome di Lia e destinata ad accogliere tutte le donne, di tutti i colori, vittime di ogni violenza

Lia Pipitone
Lia Pipitone
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Onofrio Dispenza Modifica articolo

24 Settembre 2018 - 16.33


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Forse è vero che la mafia uccide in estate. In effetti, così è stato quando si è armata di stragi ed ha sferrato attacchi terroristici alla stessa democrazia. Ma la mafia lavora ogni giorno, tutti i giorni dell’anno, notte e giorno, facendo sentire il suo fiato al collo, affidando messaggi e gesti apparentemente poco significativi a comparse dell’infinito horror che Cosa Nostra firma come regista. Poi ci sono gli sceneggiatori, altri autori che spesso firmano con un nome cifrato.
A Palermo, calendario alla mano, l’estate era finita solo di qualche ora quando la mafia ha mandato un “pizzino”. Lo ha affidato a qualcuno dei suoi “picciotti” perchè arrivasse a destinazione nel giorno dell’anniversario dell’uccisione di Lia Pipitone, assassinata il 23 settembre di 35 anni addietro.
Poca roba, si dirà, solo una saracinesca manomessa nella notte. Ma la saracinesca è quella di una onlus, la “Millecolori” aperta nel nome di Lia e destinata ad accogliere tutte le donne, di tutti i colori, vittime di ogni violenza. Era il modo migliore per ricordare Lia, donna, vittima della mafia per amore, vittima di un amore tradito, quello del padre traditore perchè boss tra i boss. E tutto accade a poco più di due mesi dalle due condanne pesanti per quel delitto, sentenza dello scorso 17 luglio.
Quel giorno, Vincenzo Galatolo e Antonio Madonia sono stati condannati a 30 anni di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione legale per l’omicidio di Lia. Ai due boss mafiosi è stata imposta lanche a libertà vigilata per 3 anni a pena espiata. Alle parti civili, marito e due figli della vittima, una provvisionale di 20 mila euro ciascuno. La richiesta della condanna a 30 anni era arrivata dopo la riapertura delle indagini in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo. Una svolta nel caso.
La morte di Lia, figlia del boss della borgata Arenella, apparentemente avvenuta nel corso di una rapina in una sanitaria, per oltre 30 era rimasto un mistero. Luce sulla morte di Lia, il 23 giugno, durante la prima udienza del processo per l’omicidio della donna. La rivelazione di Francesco Di Carlo, fu uno choc.
La rapina – dice – era stata una messa in scena. Lia doveva morire perchè non voleva rinunciare ad un amore, non voleva chiudere una relazione extraconiugale. “Lia era nata per la libertà ed è morta per la sua libertà”, ha confermato il collaboratore di giustizia.  “Mio fratello ­ – ha raccontato Di Carlo ­ – mi ha riferito che il padre di Lia, dinnanzi alla resistenza della figlia a cessare una relazione extraconiugale con un ragazzo, aveva deciso di punirla perché il capomandamento non voleva essere criticato per questa situazione incresciosa. In quel periodo il capomandamento di Resuttana, da cui dipendeva l’Acquasanta, era Ciccio Madonia che però non prendeva decisioni in quanto o malato o detenuto. Invero, il comando era assicurato da Nino Madonia e dopo l’arresto di questi dal fratello Salvatore”.
Ed ha aggiunto: “Secondo la regola di Cosa nostra, Madonia ha convocato Nino Pipitone (il padre di Lia) al quale ha comunicato la decisione di risolvere il problema eliminando la figlia. Circostanza a cui Pipitone non si è sottratto nel rispetto della mentalità di Cosa nostra che condivideva in pieno. Sempre secondo le regole di Cosa nostra ha convocato Galatolo, in quel periodo responsabile della famiglia era Vincenzo, al quale ha affidato l’esecuzione materiale dell’omicidio”.
E’ Di Carlo, dunque, ­che spiega che la rapina sarebbe stata solo una messinscena. Lia, troppo libera e ribelle per fare la donna di mafia, per essere la figlia del boss dell’Arenella, Antonino Pipitone, capomafia di spessore legato a Riina e Provenzano. Lia non crede nel “sangue mafioso”, una dopo l’altra rompe tutte le tradizioni che Cosa nostra impone alle donne di famiglia, una vita di silenzio e sottomissione. Ribelle e indipendente fin da ragazza. A 18 anni scappa di casa per sposare un compagno di scuola. Un disonore. La famiglia e Cosa nostra si mobilitano per cercare la giovane coppia in fuga. La trova e la costringe a tornare a Palermo. Lia non si fa domare, non rinuncia al suo spirito indipendente.
Siamo nella Palermo degli anni Ottanta, Lia ama viverla, le piace uscire, ma è osservata speciale, è sospettata di frequentare un altro uomo. Il quartiere in cui vive mormora, le voci arrivano alla famiglia, alle famiglie. Lia un giorno riceve anche uno sputo in faccia in famiglia, quasi la promessa del piombo. Si arriva al 23 settembre 1983. Lia entra in una sanitaria per fare una chiamata dal telefono a gettoni.
Riagganciata la cornetta entrano due uomini a volto coperto, ordinano al titolare di consegnare loro l’incasso, poi attendono che la ragazza si avvicini al bancone. E’ a quel punto che uno dei due le spara alle gambe. Fa per andarsene, ci ripensa, urla “Mi ha riconosciuto!”.  Partono quattro colpi, questa volta per uccidere. Una rapina improbabile, con una improbabile sequenza. Una storia incredibile ricostruita in “Se muoio sopravvivimi”, libro scritto dal giornalista di repubblica Salvo Palazzolo insieme al figlio di Lia, Alessio Cordaro, che all’epoca aveva 4 anni. 

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