Massimo Gramellini, dal martedì al sabato, cura per il Corriere della Sera una rubrica di opinione chiamata Il Caffè. Il suo corsivo di questa mattina si intitola “Cappuccetto Rosso” ed esordisce così: “Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto”.
La prima cosa che va detta è che se tu, giornalista, vuoi scrivere ogni giorno su tutto e tutti prima o poi una grandissima cazzata la pubblichi. In questo caso Gramellini ha scritto un incipit talmente offensivo e irrispettoso che anche se poi la parte successivi rivela un pensiero opposto, è difficile non affermare che quella frase non può trovare nelle righe successive nessuna giustificazione. Gramellini (e passatemi la seconda brutta parola) scrive una paraculata. Nella prima parte dà ragione alle belve da tastiera e nella seconda indora la pillola a chi come noi è rimasto scioccato dalle sue parole (quasi leghiste). Ma io e credo anche voi, stanchi dello squadrismo, del razzismo, del maschilismo non siamo cascati nella sua subdola trama.
Continua così il suo caffè amaro, oggi molto amaro, l’editorialista de La Stampa:
Ci sono però una cosa che non riesco ad accettare e un’altra che non riesco a comprendere. Non riesco ad accettare gli attacchi feroci a qualcuno che si trova nelle grinfie dei banditi: se tuo figlio è in pericolo di vita, il primo pensiero è di riportarlo a casa, ci sarà tempo dopo per fargli la ramanzina. E non riesco a comprendere che tanta gente possa essersi così indurita da avere dimenticato i propri vent’anni. L’energia pura, ingenua e un po’ folle che a quell’età ti spinge ad abbracciare il mondo intero, a volerlo conoscere e, soprattutto, a illuderti ancora di poterlo cambiare. Le delusioni arrivano poi, quando si diventa adulti e si comincia a sbagliare da professionisti, come canta Paolo Conte. Silvia Romano non ruba, non picchia, non spaccia. Non appartiene alla tribù dei lamentosi e tantomeno a quella degli sdraiati. La sua unica colpa è di essere entusiasta e sognatrice. A suo modo, voleva aiutarli a casa loro. Chi in queste ore sul web la chiama «frustrata», «oca giuliva» e «disturbata mentale» non sta insultando lei, ma il fantasma della propria giovinezza.
Silvia Romano ha 23 anni, è stata schiaffeggiata, legata, rapita in Kenya mentre faceva la volontaria in una onlus che si occupa di bambini poveri. Non si sa che fine abbia fatto e tra ieri e oggi molti italiani sui social -e anche questo signore- le hanno dedicato parole feroci che mi fanno pensare che in caso di rilascio (e lo speriamo noi di Globalist con tutto il cuore) non troverà un Paese desideroso di riabbracciarla. E’ l’Italia fascista di oggi. Ci tocca farcene una ragione (o reagire).