L'analisi della giurista: "Carola è nel giusto, ad essere illegittimo è il decreto sicurezza"

Francesca De Vittor è Docente di Diritto Internazionale e Diritti dell'Uomo presso la Cattolica e non ha dubbi: il d.s. è 'manifestamente in contrasto con la Convenzione dei diritti dell'uomo'

Carola Rackete
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29 Giugno 2019 - 14.41


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Francesca De Vittor, Docente di Diritto Internazionale e Diritti dell’Uomo all’Università Cattolica di Roma, ha scritto un lungo articolo su Cattolica News in cui spiega perché ad essere completamente fuori legge è proprio il decreto sicurezza bis di Salvini, e non Carola Rackete: “Nonostante la si accusi ora di aver violato le leggi dello Stato italiano, e in particolare il divieto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 del d.lgs. 186/1998 e il divieto di ingresso imposto dal Ministro dell’Interno sul fondamento del DL 53/2019, c.d. sicurezza-bis, la comandante Rackete, fin dall’inizio dei soccorsi, non ha fatto altro che rispettare un obbligo imposto dal diritto internazionale e dalle leggi sia italiane sia del suo stato di bandiera. Ciò che in tutta questa vicenda appare invece manifestamente illegittimo, sia dal punto di vista del diritto costituzionale italiano sia del diritto internazionale è proprio il c.d. decreto sicurezza bis” spiega la docente. 
“L’obbligo di soccorso in mare è previsto sia dal diritto internazionale consuetudinario (che nel nostro ordinamento ha valore di diritto costituzionale in base al rinvio operato dall’art. 10 Cost.), sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM) e dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) (entrambe ratificate dall’Italia e che nel nostro ordinamento hanno valore di legge, anzi superiore alla legge per l’art. 117 Cost.). Per previsione espressa di quest’ultima Convenzione il soccorso si conclude solo con lo sbarco delle persone in un porto sicuro, che è un porto in cui la loro vita non è più in pericolo e i diritti umani fondamentali sono loro garantiti”. 
Com’è noto, l’unico porto che aveva dato la sua disponibilità era il porto di Tripoli in Libia, che – lo ripetiamo per la centesima volta – non è un porto sicuro: lo ha ripetuto l’Onu, Medici Senza Frontiere, Bruxelles, lo stesso ministro Moavero. 
E infatti la docente ribadisce: “come deciso dal GIP di Trapani in una recente sentenza l’essere riportati in Libia avrebbe costituito un’offesa ingiusta alla quale i migranti stessi avrebbero potuto opporsi anche con la forza in legittima difesa (art. 52 c.p.). 

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Una volta chiarito che verso Tripoli la Sea Watch non avrebbe in alcun caso potuto dirigersi, la comandante si è lecitamente diretta verso il porto sicuro più vicino, e quindi Lampedusa. Tutti gli stati membri della Convenzione SAR hanno l’obbligo di cooperare affinché il comandante della nave che ha prestato soccorso sia liberato dalla propria responsabilità (ovvero possa far sbarcare le persone soccorse) nel minor tempo possibile e con la minor deviazione dalla propria rotta”. 
Riguardo al destino della Comandante e dell’equipaggio, la De Vittor scrive: “Starà alla magistratura valutare eventuali responsabilità penali a carico della comandante e dell’equipaggio della nave, ma è presumibile che anche qualora eventuali comportamenti illeciti siano constatati venga comunque riconosciuta la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) o dell’aver commesso il fatto in adempimento di un dovere (art. 51 c.p.). Va in ogni caso ricordato che in nessuno dei casi in cui sono state aperte indagini a carico di Ong per i soccorsi in mare si è mai giunti a una condanna”. 
“Se di responsabilità si vuole parlare” conclude la docente, “sarebbe meglio parlare di quelle dell’Italia. Va infatti considerato che la nave, probabilmente già da prima, ma sicuramente da quando è entrata nelle acque territoriali italiane, si trova sotto la giurisdizione dell’Italia per l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo pertanto il prolungarsi del trattenimento a bordo della nave dei migranti, già estremamente provati, integra da parte dello Stato italiano una violazione dell’art. 3 e dell’art. 5 della Convenzione”. 

 

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