Come sorelle: la Sicilia piange due giovani vittime dell'ultimo naufragio

C'è tanta gente a dire addio alle due ragazze d'Africa. Molti ragazzi, tante donne.

Montevago
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Onofrio Dispenza Modifica articolo

2 Dicembre 2019 - 14.46


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Montevago sa bene cosa vuol dire seppellire le vittime di una tragedia. Mel terremoto del Belice del’68 ne seppellì tante. I numeri sono ancora incerti, forse qui i morti furono 370. Le ferite sono rimaste a lungo, le cicatrici non sono tutte rimarginate. Cimitero di Montevago, mattinata di sole dopo tanta tempesta.
Il cimitero è in via Madonna delle Grazie, una madonna che è nel cuore degli abitanti. E c’è un convento di frati. Uno di loro presiede la breve, intensa cerimonia funebre in nome dell’unico Dio degli uomini. E’ l’ultimo saluto a due delle vittime del più recente naufragio nel Mediterraneo, al largo di Lampedusa.
Due giovani donne, una di 24 anni, l’altra di sedici. Resteranno qui per sempre. Montevago, come tanti altri Comuni dell’entroterra agrigentino, in questi anni ha accolto, pianto e seppellito tante donne, uomini e bambini che non ce l’hanno fatta, in fuga da fame, violenze e guerre. C’è tanta gente a dire addio alle due ragazze d’Africa. Molti ragazzi, tante donne. Nella cappella dell’ultimo saluto alle giovani vittime del Mediterraneo, in prima fila i più giovani Ciascuno di loro esprime un pensiero. E’ per chi se ne andato, ma anche per chi resta, che è chiamato a nuovi atti d’amore che sappiano scacciare paura e odio.
E ci sono lacrime e fazzoletti ad asciugarle, come se il funerale fosse per uno della famiglia, per qualcuno col quale si è diviso un tratto di strada lungo la vita. La pietà è la stessa. Una ragazza è la prima a salutare le due giovani vittime del naufragio. Ricorda il loro sogno infranto, pensa ai genitori rimasti in Africa, al loro lutto, alla loro disperazione. “A noi tutti spetta fare un passo avanti, fare qualcosa perchè quel che è accaduto non accada più”. I giovani che questa mattina sono qui considerano una bestemmia l’idea iniettata nelle vene del Paese, quel velenoso principio che si vorrebbe far passare, “Prima gli italiani. “Siamo tutti uguali, siamo tutti figli e figlie di questo mare”. Il Mediterraneo non è distante, il Belice di viti e ulivi scivola lentamente verso il mare, che appare improvviso scavalcando l’ultima dolce collina della valle. Mediterraneo accecante, specchio per un sole che da queste parti continua a scaldare anche alle porte dell’inverno.
Sempre oggi, più in là, sulle montagne della provincia, a Santo Stefano di Quisquina, altro funerale per altre due vittime dello stesso naufragio. “Non ci tireremo mai indietro…Noi speriamo ogni giorno che questa tragedia finisca, ma quando ci sarà da dare dignitosa sepoltura a un uomo, ad una donna, ai bambini, noi ci saremo sempre”, dice una donna che continua a piangere. “Ciascuno di noi deve essere costruttore di pace”, è il saluto del frate a chi torna a casa, al lavoro. Pace anche attorno a noi, nei piccoli gesti quotidiani, mai offrire una breccia all’odio. Poi le bare sono portate a spalla per essere interrate. Fatte scivolare lentamente nella fossa, con dolcezza, con garbo, con cura, quasi una estrema carezza. Prima della terra sulle bare, i fiori. Erano tanti nella piccola cappella del cimitero.
Tutti a gettare un fiore sulle bare, tra loro una ragazza africana che qui ha iniziato una nuova vita.

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