Quanto sta accadendo nel Paese, travolto da una emergenza sanitaria che forse, e dico forse, non è stata colta dall’inizio nella sua gravità, è un insieme di comportamenti che pencolano tra l’isteria e il parossismo, passando per l’incoscienza e la manipolazione della realtà per meri fini politici. Mentre l’Italia si trova, quindi, a dovere mutare le sue abitudini in modo sostanziale e per un arco di tempo ancora tutto da definire, il sistema penitenziario è scosso da proteste che, partendo dalle restrizioni imposte a tutela della salute di detenuti e personale, stanno raggiungendo vette di violenza che ha precedenti solo in episodi di molti anni fa.
Le proteste dei detenuti, scoppiate in carceri ”difficili”, ma anche in quelli dove la maggior parte dei detenuti è considerato ”a bassa pericolosità”, hanno immediatamente assunto una deriva violenta, non limitandosi al solito copione (con il tradizionale falò di materassi e la distruzione del contenuto delle celle), ma evolvendosi con la conquista di porzioni dei reclusori – come i tetti – ritenute le migliori per portare all’esterno l’eco di quanto accadeva entro il perimetro dei penitenziari. Tacendo dell’attacco programmato alle infermerie per depredarle di farmaci usate come se fossero droga, provocando la morte di almeno tre detenuti, e delle evasioni di massa.
La proteste, scattate con l’irrigidimento delle regole dei colloqui, hanno avuto, però, una caratteristica evidente nella contemporaneità e nella somiglianza della forma di violenza scelta a sostegno delle istanze dei detenuti.
Che la situazione del circuito carcerario italiano sia esplosiva lo si sa da tempo e che alla base di tale situazione ci siano le condizioni in cui i reclusi trascorrono gran parte delle loro giornate è notorio.
Le Istituzioni, in questo capitolo della vita del Paese, sono colpevoli di non avere trovato (questo governo e il precedente, classificabili come politicamente anomali, ma anche quelli che negli anni si sono alternati, di destra o sinistra, senza distinzione) la forza per avviare un piano per la realizzazione di nuovi reclusori, ma soprattutto per dare livelli accettabili di vivibilità a quelli che oggi non l’hanno.
Sovraffollamento, promiscuità, violenze taciute sono all’ordine del giorno e bene fanno i cosiddetti ”garanti dei detenuti” a denunciare questo stato di cose quotidianamente.
Ma questa volta la contestualità delle proteste dentro e fuori le carceri e la contemporanea partenza di una campagna a favore di amnistia e indulto desta perplessità, senza volere assolutamente affermare l’esistenza di un legame tra di loro.
La prima perplessità è che appare difficile pensare che i moti violenti siano scattati nelle stesse ore per mera coincidenza e che gli slogan eguali urlati dai tetti delle carceri ”conquistati” dai detenuti in rivolta siano stati partoriti senza una comunicazione antecedente tra i promotori delle rivolte.
E poi, viene da riflettere, anche le proteste dei parenti dei detenuti, davanti alle carceri che bruciavano di proteste, sono sembrate un po’ troppo simili. Certo, il contesto in cui queste proteste sono nate e si sono moltiplicate è inquietante, quasi tragico, ma è forse il caso di chiedersi se le rivolte, scoppiate in una fase delicatissima della vita degli italiani, non vogliano approfittare della situazione generale per sostenere l’emanazione di provvedimenti che prevedano l’apertura delle porte delle carceri per gran parte dei detenuti condannati per reati non gravissimi.
Come accade sistematicamente quando, sul tavolo, vengono aperti dossier di interesse generale, con la rivolta delle carceri è stato tutto un rincorrersi di dichiarazioni, alcune delle quali abbastanza singolari, laddove, pur partendo dalla oggettiva invivibilità dei reclusori italiani, si sollecita, anzi si rivendica lo spalancarsi dei portoni dei penitenziari, quasi che questo sia il solo medicamento, la sola soluzione, l’inevitabile epilogo di rivolte violente. Nel corso delle quali – cosa che chi rivendica dalla società civile indulto ed amnistia sembra dimenticare un po’ troppo velocemente – sono stati compiuti reati molto gravi, a partire dal sequestro e dal pestaggio di alcuni agenti della Polizia penitenziaria.
Ma il punto su cui la classe politica – che stranamente esita a prendere una posizione, anche per il clima che hanno determinato le campagne elettorali di Salvini e compagni parossisticamente improntate sulle tematiche della sicurezza – deve riflettere è se lo svuotamento delle carceri sia un prezzo da pagare obbligatoriamente per riportare la calma. Da parte nostra, ci permettiamo di suggerire un altro elemento di riflessione. Come l’opinione pubblica italiana giudicherebbe un eventuale provvedimento premiale (destinato ad un numero alto di detenuti, ma non certo tutti pericolosi) che contribuirebbe comunque a svuotare in parte le carceri, ma adottato dopo le rivolte seriali nei reclusori? La sensazione che se ne potrebbe trarre è che lo Stato abbia chinato la testa davanti alla violenza, secondo uno schema che potrebbe riproporsi tra qualche tempo, sulla base non di spontanei moti di rabbia, ma di preordinate azioni di violenza. Insomma, se si concedono indulto ed amnistia dopo le rivolte l’immagine che darebbero le Istituzioni sarebbe quella di chi è stato messo sotto ricatto ed ha accettato le condizioni di chi ha violato la legge. I provvedimenti di clemenza sono elementi che fanno parte del nostro ordinamento, piaccia o no. Quel che non deve piacere è che per ottenerli si eserciti la violenza.
Il problema delle carceri non si può risolvere con il ricatto delle rivolte
Che la situazione del circuito carcerario italiano sia esplosiva lo si sa da tempo e che alla base di tale situazione ci siano le condizioni in cui i reclusi trascorrono gran parte delle loro giornate è notorio. Ma...
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Diego Minuti Modifica articolo
10 Marzo 2020 - 17.33
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