First Pride was a Riot
La notte del 27 giugno 1969, un commando di poliziotti armati fino ai denti fece irruzione allo Stonewall Inn, un bar del Greenwich Village di New York e conosciuto ritrovo per omosessuali. Era un periodo molto particolare per la comunità gay newyorkese: i fermenti iniziati nel ’68 con le manifestazioni contro la guerra nel Vietnam e le rivendicazioni della comunità afroamericana (Martin Luther King era stato ucciso solo l’anno prima, il 4 aprile del 1968) avevano dato inizio a tanti focolai di protesta soprattutto contro la violenza della polizia, che era solita adescare uomini gay nei bar per poi arrestarli per atti osceni; inoltre, una settimana prima era morta per un’overdose Judy Garland, attrice che fu una delle prime gay icon di Hollywood. Il suo funerale si celebrò a New York proprio la mattina del 27 giugno e si stima vi presero parte 12.000 appartenenti alla comunità Lgbt. La morte di Garland fu un vero shock: l’attivista trans Sylvia Rivera (che ebbe un ruolo da protagonista nei moti di quella notte) rimase sconvolta alla notizia, come racconta lo storico Martin Dobermann nel suo libro Stonewall: “È la fine di un’era. Non ci sarà più un ‘Oltre l’arcobaleno’” singhiozzava, riferendosi alla leggendaria Somewhere over the rainbow, cantata da Garland ne Il Mago di Oz.
Era quindi una comunità a lutto quella che si trovava allo Stonewall quella notte. A lutto e arrabbiata, stanca di essere invisibile, di vedere la polizia soffocare la loro libertà con manganelli e manette. Così la retata fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Su chi per primo iniziò la rivolta si sono raccontate tante leggende: alcune dicono che sia stata proprio Sylvia Rivera a scagliare per prima una bottiglia contro un agente, altre che sia stata una donna lesbica, Stormé DeLarverie, a opporre resistenza mentre veniva trascinata verso una macchina della polizia, altre ancora che fu Marsha P. Johnson, drag queen e donna trans nera, a gettare un bicchiere contro uno specchio urlando ‘I’ve got my civil rights’, (‘Ho i miei diritti civili’). Probabilmente, sono vere tutte e tre, così come ce ne saranno state altre. Perché Stonewall, e la settimana di scontri che ne derivò, fu l’inizio di un movimento, di una comunità che alzava la testa e si ribellava contro la discriminazione e la violenza delle forze armate. ‘First Pride was a riot’, il primo Pride fu una rivolta, è uno slogan scelto nel 2020, per rispondere a chi sostiene che la rabbia che attraversa gli Stati Uniti in queste settimane dopo la morte di George Floyd non debba trasformarsi in ribellione. Sono passati 51 anni e se è innegabile che i diritti civili conquistati oggi dalla comunità Lgbt fossero impensabili anche solo 20 anni fa, è altresì tristemente vero che, come Alessandro Di Battista ha messo in evidenza, c’è ancora chi pensa – anche tra gli stessi omosessuali – che le drag queen, i tacchi, le parrucche, il trucco, il cuoio e i corpi liberi e scoperti che sfilano durante i Pride siano ‘volgari provocazioni’. Provocazioni verso la gente ‘normale’, che vorrebbe che gli omosessuali sfilassero ordinatamente, con la giacca e la cravatta.
La ‘carnevalata’
Le ‘volgari provocazioni’ sono un altro modo, più aggressivo e reazionario, per dire carnevalata, l’aggettivo più comune tra gli ‘indignati’ per definire i Pride. Ciò che sfugge a questi difensori della morale e del buon costume è che ‘carnevalata’ è l’aggettivo perfetto per parlare del Pride. Il carnevale è letteralmente il giorno in cui si invertono i ruoli, in cui ‘il folle può essere re’. Le strade delle città del mondo, nel mese del Pride, si colorano di milioni di ‘folli’, che con la loro presenza fisica, con i loro corpi che vivono, respirano, ballano e amano, stanno mandando un messaggio semplice eppure potentissimo: noi esistiamo. E, come Marsha P. Johnson urlava, ‘abbiamo dei diritti’. Diritti che vanno al di là di come vestiamo e di chi amiamo, diritti universali e umani. Il Pride (non il ‘Gay Pride’, caro Di Battista, ma Pride è basta) è l’orgoglio di tutti. Orgoglio non di essere omosessuali, ma di essere umani. Umani che portano i tacchi e le parrucche come la giacca e la cravatta, che tengono per mano altri uomini e altre donne, che desiderano, che amano, che hanno ambizioni, che sbagliano e che soffrono. Come tutti. È per questo che non esiste un ‘etero pride’, perché non stiamo più parlando esclusivamente di orientamento sessuale, ma di libertà umana. E anche perché nessuno, in tutta la storia dell’umanità, è mai stato discriminato per essere eterosessuale.
La morale
Ciò che il Pride rappresenta è la meraviglia della diversità, opposta al conformismo morale della società. Parte dall’assunto che per non essere più invisibili bisogna creare qualcosa di dirompente, un simbolo che rompa gli schemi. ‘We’re here, we’re queer. Get used to it’ è uno degli slogan dei moti di Stonewall: “Siamo qui, siamo queer. Abituatevi’. La ‘queerness’, letteralmente la ‘stranezza’, è uno dei tanti insulti che erano riservati alla comunità Lgbt, rivendicati e usati come bandiera da chi ha scelto di non vergognarsi più di essere semplicemente sé stessi. Imporre la morale, come vorrebbero di vari Di Battista italiani, è la quintessenza dell’omofobia e della sessuofobia, della paura che senza delle ‘regole’ il mondo potrebbe precipitare nell’anarchia. Senza capire che le uniche regole che valgono sono quelle del rispetto, dell’uguaglianza e della libertà di tutti e per tutti gli esseri umani, al di là dell’apparenza.
La ghettizzazione
Sono moltissimi gli omosessuali che non vedono di buon occhio il Pride, perché lo ritengono un’ulteriore forma di ghettizzazione della comunità. È purtroppo molto vero che l’apertura del Pride a tutti e non solo alla comunità Lgbt è ancora un processo in divenire e che, come accade in molte città italiane, esistono ‘gay street’ e quartieri gay friendly frequentati quasi esclusivamente da persone Lgbt. Questo ha ovviamente una ragione storica: luoghi come questi erano reti di sicurezza per i membri più vulnerabili della comunità e col tempo sono finiti per diventare delle zone in cui gli eterosessuali semplicemente non vanno. Queste ragioni sono ancora valide in molte realtà, dove per esempio vedere due donne o due uomini baciarsi è un gesto in grado di provocare scandalo e, potenzialmente, reazioni omofobe e violente (ed è per questo che una legge contro l’omofobia è una questione quanto mai urgente).
Ma un’altra ragione che spinge molte persone Lgbt a snobbare i Pride è il pensare che siano ‘carnevalate’, nel senso dibattistiano del termine. L’omofobia interiorizzata di tantissimi uomini e donne omosessuali è un’altra ottima ragione per cui il Pride deve continuare a essere colmi di queste ‘volgari trasgressioni’ che tanto infastidiscono i ‘normali’: la provocazione crea conflitto e il conflitto porta alla luce il pregiudizio che rimarrebbe altrimenti sopito ma sempre presente. Non esiste un ‘modo unico’ di essere gay, come non esiste un modo unico di essere umani. Una lezione che in tanti devono ancora imparare, che siano gay, bi, trans o eterosessuali.
Il ritorno alla politica
Se è vero che non esiste un solo modo di essere Lgbt, è vero però che la discriminazione ci riguarda tutti. E che ciò che il Pride non dovrebbe mai perdere di vista è che si tratta prima di tutto di una marcia politica. Uno dei principali ostacoli alla lotta per i diritti civili che ancora sono negati alla comunità è il rifiuto da parte di molti membri Lgbt di considerare il proprio personale come politico. È un rifiuto legittimo, perché la riservatezza dovrebbe essere un diritto di tutti, ma questa voglia di tranquillità non deve essere confusa con un ‘diritto all’indifferenza’. Tra le tante storture giuridiche di questo paese, c’è anche la negazione del diritto alla famiglia, che sta provocando traumi anche gravi in molte persone Lgbt: la difficoltà alle volte quasi insormontabile nel creare una propria famiglia, nell’appagare un desiderio umano di genitorialità, spinge molti omosessuali a rinunciare oppure – ancora peggio – a fingere una relazione eterosessuale. Le famiglie omogenitoriali esistono ed esistono gli studi e le testimonianze che avrebbero ormai dovuto relegare il concetto di famiglia ‘tradizionale’ (uomo, donna, bambino) nel dimenticatoio, sostituendola con la più veritiera formula di ‘famiglia’ e basta, intesa come luogo in cui le persone si amano e sono al sicuro.
Quello della famiglia è solo un esempio: le persone Lgbt italiane vivono in un paese in cui non è sicuro tenere per mano i loro partner, indossare abiti di un certo tipo, esplicitare la propria omosessualità sul luogo di lavoro, abitare insieme ai propri compagni per paura di reazioni violente, senza contare la totale assenza giuridica in cui vivono le persone trans. Non si tratta di casi isolati, ma di violazioni sistematiche dei diritti umani. Ed è per questo che i Pride e anche la comunità Lgbt dovrebbero riscoprire la propria anima politica, tornando alle proprie radici. Dimenticare la propria storia, dimenticare che senza quelle donne e quegli uomini che, in tacchi e parrucca, hanno piantato i semi della libertà, significa correre il rischio di diventare indifferenti. E significa, soprattutto, dare per scontati i nostri diritti, pensare che mai più nessuno potrà portarceli via. Significa dimenticare che la lotta non è ancora finita.