La notizia è clamorosa, e conferma quanto più volte denunciato da Globalist. I pescatori rapiti in Libia potevano essere salvati da una nave da guerra della Marina, ma si scelse di non intervenire. Dopo l’indiscrezione arriva la conferma: “Un intervento in quelle condizioni avrebbe innescato un processo escalatorio, innalzando la tensione e mettendo a rischio la sicurezza stessa dei pescatori”. Era il cacciatorpediniere “Luigi Durand de la Penne”, – si legge su Repubblica – una delle unità di punta della Marina Militare, la nave da guerra che il 1° settembre scorso incrociava al largo della Cirenaica mentre venivano sequestrati i 2 pescherecci italiani ancora oggi nelle mani dei miliziani di Khalifa Haftar. Da allora 18 marittimi (8 italiani, 6 tunisini, 2 senegalesi e 2 indonesiani) sono ostaggio di una milizia non riconosciuta legalmente, ma il cui leader di fatto controlla la Cirenaica e intrattiene continui rapporti politici con il Governo italiano, tanto da essere stato ricevuto più volte a Palazzo Chigi.
Nel suo comunicato la Marina spiega che «la possibilità di intervento è stata preclusa sia dalla distanza che dalla dinamica dell’evento. Ma qui – prosegue Repubblica – la Marina fa una seconda ricostruzione che non coincide con quella dei pescatori: la forza armata scrive che «personale militare libico era già a bordo» dei due pescherecci sequestrati, il Medinea e l’Antartide. Tutti i racconti dei pescatori riferiscono invece che la tecnica utilizzata dai libici era diversa: un gommone con 3 miliziani armati di kalashnikov si avvicinava ai differenti pescherecci, imponendo di far scendere il comandante sul gommone stesso. Anche per questo quindi il Durand de la Penne, un cacciatorpediniere da 5.400 tonnellate, ha evitato di avvicinarsi a un gommone e una vedetta della milizia di Khalifa Haftar.
Il governo italiano non parla dell’eventuale negoziato che ha avviato con Haftar, ma ormai – scrive Repubblica – la richiesta è “diventata solo un paravento per nascondere il fatto che Haftar si prende la libertà di non restituire i pescatori all’Italia”. Il sequestro è avvenuto dopo ore di osservazione di una vedetta libica e con il mancato intervento di un elicottero di un cacciatorpediniere della Marina Militare italiana che era a 115 miglia dall’area del sequestro. Un elicottero la cui semplice presenza sarebbe bastata ad allontanare i miliziani libici. Un elicottero che però non è mai intervenuto. Dopo il primo attacco dei libici sono subito arrivate le prime risposte dalla Marina di Roma. “Ma all’improvviso per 2 o 3 ore la Marina non risponde più alle telefonate degli armatori“, spiega una fonte a Repubblica, “poi verso le 3 di notte chiamano per dire che l’elicottero non può intervenire, che il caso ormai è diplomatico e che non c’è nulla da fare“. E i nostri pescatori sono ancora ostaggio in Libia…
Il crimine è in quelle navi della marina Militare a cui è impedito di superare le nostre acque territoriali per salvare vite umane in acque internazionali. Il crimine è nell’aver deciso di mantenere i principi disumani che sorreggevano i decreti sicurezza del Conte I“, scegliendo di “limitarli” invece di abrogarli. Il crimine è nell’aver finanziato la cosiddetta Guardia costiera libica. E averla fornita di motovedette che da più di due settimane sono ufficialmente nelle mani del Sultano di Ankara. Annota Nello Scavo su Avvenire: “Dopo aver ottenuto dall’Europa le chiavi per la gestione del flusso migratorio lungo le rotte orientali (6 miliardi di euro per trattenere in Anatolia milioni di profughi siriani), ora il presidente Erdogan ha tra le mani un’altra potente arma di ricatto: il controllo della cosiddetta Guardia costiera libica. Le prime tragiche avvisaglie sono arrivate con le ultime due stragi in mare: 15 migranti dispersi giovedì e altri cinque ieri a un’ora di navigazione da Lampedusa. In entrambi i casi i guardacoste libici non hanno avviato alcun intervento. Erano impegnati con i nuovi addestratori. Le dichiarazioni e le immagini che arrivano da Tripoli sono uno smacco soprattutto per l’Italia. Le motovedette donate dai governi Gentiloni e Conte da alcuni giorni vengono adoperate da istruttori turchi che insegnano ai colleghi libici come pattugliare l’area di ricerca e soccorso. Una zona ‘Sar’ la cui istituzione è stata progettata e pagata dall’Italia. Anche gli interventi dei pattugliatori di fabbricazione italiana saranno decisi in accordo con le forze armate turche, che senza investire un centesimo dispongono adesso di flotta supplementare nel Mediterraneo centrale. A quanto riferiscono svariate fonti in Turchia e in Libia – prosegue Scavo – Tripoli e Ankara decideranno d’intesa quando intercettare i migranti in mare e quando invece lasciarli raggiungere le coste italiane.
Ostaggi
Due circostanze rendono il caso inusuale: la tempistica e le richieste per il rilascio. Il fermo è avvenuto nel giorno della quarta visita in dieci mesi del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Libia: il titol si è recato sia a Tripoli che a Qubba, roccaforte del presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, ma non dal generale Haftar. In seconda istanza, da Bengasi chiedono la liberazione di calciatori libici condannati in Italia con l’infamante accusa di traffico di esseri umani. Al livello ufficiale, l’Italia non può protestare con il governo libico “ad interim” dell’est, il braccio politico di Haftar, perché non lo riconosce. Tra l’altro, la sera del 13 settembre, il primo ministro “orientale” in carica dal 2014, Abdullah al Thinni, ha presentato le sue dimissioni dopo le proteste tenute nell’est della Libia contro il suo governo per la mancanza di servizi. L’unico canale ufficiale possibile in Libia per la liberazione dei pescatori è al momento il parlamento di Tobruk presieduto da Saleh, che però è in rotta di collisione con Haftar. L’Italia ha cercato di fare di più, contattando i “padrini” internazionali di Haftar: il titolare della Farnesina ha discusso della questione con i colleghi Emirati Arabi Uniti e Russia, rispettivamente Abdullah bin Zayed al Nahyan e Sergej Lavrov.
Risultati? Zero.
Trattativa “segreta”
Un tweet del Libyan Addres Journal conferma ciò che da settimane si dice a Mazara del Vallo, a proposito della vicenda del sequestro in Libia dei18 pescatori, Il tweet rende ufficiale ciò che anche le autorità italiane ritenevano ufficioso e qualcuno anche infondato: l’esistenza di una trattativa dietro quella ufficiale, rimasta ferma però al palo. I miliziani di Haftar hanno ribadito infatti alla testata giornalistica libica che i pescatori non saranno liberati, se prima non vi sarà da parte dell’Italia il rilascio di quattro «calciatori» libici oggi in carcere in Italia. Uno scambio di prigionieri insomma. E la trattativa nascosta è diventata così quella ufficiale. I libici indicati come “calciatori” sono in realtà quattro scafisti, condannati a Catania a 30 anni per traffico di esseri umani e per la morte in mare di 49 migranti, fatto risalente all’estate 2015. Una richiesta che mette a pari la storia di 18 persone che erano in mare per lavoro e quella di 4 soggetti che in mare andavano per guadagnare sulla pelle di 49 migranti, tutti morti affogati davanti alla costa orientale siciliana. Sottolinea il procuratore della Repubblica di Catania Carmelo Zuccaro: “Altro che giovani calciatori. Non furono condannati solo perché al comando dell’imbarcazione, ma anche per omicidio. Avendo causato la morte di quanti trasportavano, 49 migranti tenuti in stiva. Lasciati morire in maniera spietata. Sprangando il boccaporto per non trovarseli in coperta. Un episodio fra i più brutali mai registrati”. Per questo il procuratore Zuccaro considera l’eventualità di «uno scambio di ostaggi» una enormità giuridica:” Non penso che verremo interpellati, ma da operatori del diritto saremmo assolutamente contrari. Sarebbe una cosa ripugnante”.
Acque contese
Scrive Alberto Puglia, in un documentato report su Vita: “Un mare dove nessuno deve vedere, scomodo, in cui ciò che è lecito viene stabilito di volta in volta, senza testimoni. Un mare dove se cali la tua rete da pesca devi stare attento perché puoi essere sequestrato, minacciato con le armi e magari rinchiuso in uno dei tanti lager dove ogni giorno centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini vengono torturati. No, questo non è un mare lontano. É il nostro mare, il Mediterraneo Ma cos’è accaduto da quando uno stato diviso in più fazioni e in guerra come la Libia ha istituito la sua zona Sar che per i non addetti ai lavori significa letteralmente “ricerca e soccorso in mare”? E cosa c’entra il Golfo di Sirte? Beatrice Gornati, dottore di ricerca in diritto internazionale all’Università degli studi di Milano esperta in traffico di migranti nel Mediterraneo spiega: ‘Bisogna tenere presente che nel 1973 la Libia dichiarò che il Golfo di Sirte fosse parte delle sue acque interne: il Golfo fu annesso attraverso una linea di circa 300 miglia, lungo il 32°30’ parallelo di latitudine nord. Tuttavia, tale rivendicazione fu respinta da un gran numero di Stati, inclusi i principali membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito). A seguito di questo episodio, nel febbraio 2005, la Libia stabilì inoltre, tramite una decisione del Libyan General People’s Committee, una zona di protezione della pesca, nel rispetto della General People’s Committee Decision No. 37 del 2005. Anche in questo caso, la delimitazione stabilita dalla Libia incontrò le proteste di diversi Stati e della Presidenza dell’Unione europea: considerando infatti che la Libia aveva rivendicato il Golfo di Sirte quale parte delle sue acque interne, le 62 miglia di zona di pesca da essa reclamate sarebbero state contate a partire dalle 12 miglia dalla linea di chiusura del golfo. Peraltro, nel 2009, la Libia dichiarò una ZEE (zona economica esclusiva) ‘adjacent to and extending as far beyond its territorial waters as permitted under international law’ ,il cui limite esterno, ad oggi, non è ancora stato tracciato. il 28 giugno 2018 l’Imo (Organizzazione Marittima internazionale) ufficializza quello che in passato appariva come un’utopia e registra su comunicazione delle autorità libiche la zona Sar (Search and Rescue) libica con un proprio centro di coordinamento di soccorsi (JRCC). Registrandosi sul sito è possibile consultare alcuni dati, visionare la mappa e conoscere altitudine e longitudine dell’area in questione. Muniti di carta nautica, abbiamo calcolato queste distanze. Dalla costa di Tripoli alla linea rossa di confine le miglia sono circa 116,25. É chiaro quindi perché i pescatori siciliani hanno tutto il diritto di dire oggi che da un anno a questa parte i libici ‘si sono presi mezzo Mar Mediterraneo’. Il capitano Raimondo Sudano (uno dei rappresentanti dei marinai di Mazara del Vallo, ndr) aggiunge: ‘E questo avviene anche grazie all’Italia che dà alla guardia costiera libica i mezzi di sostentamento per fare la Guerra a noi italiani che andiamo a lavorare onestamente. I libici si sono ora fatti anche furbi, oltre che con le motovedette vengono a fare gli abbordaggi in mare con le barche da pesca e subito dopo arrivano i loro gommoni e non hai neanche il tempo di chiamare le autorità italiane che vieni sequestrato con tutto il pescato e trattato come un terrorista”. “La paura di tornare in mare è tanta – rimarca ancora Puglia -e si sovrappone a quel senso di abbandono da parte dello Stato che non tutela i suoi pescatori. Scrive l’esperto Fabio Caffio che, pur ricordando l’impegno passato della nostra Marina nello Stretto di Sicilia e nell’Adriatico dall’aggressività jugoslava, rimarca: ‘Diverso invece l’impegno della Marina nella zona di acque internazionali ove ricade la ZPP libica: non risulta infatti che la Forza Armata abbia ricevuto alcuna direttiva di proteggere da vicino ed in modo continuativo l’attività di pesca dei connazionali contrastando la pretesa libica”
Il reportage è del 24 maggio 2019. Il titolo era: “La denuncia dei pescatori siciliani: ‘così i libici si sono presi il Mediterraneo’”.
E’ trascorso un anno e mezzo. E quel titolo è drammaticamente attuale. E ciò che rende ancora più intollerabile la situazione, è che i libici “si sono presi il Mediterraneo” anche grazie ai finanziamenti italiani alla cosiddetta Guardia costiera libica e al fatto che, per “paura” di dover salvare migranti, le navi della nostra Marina militare non possono avventurarsi in mare aperto. Alla mercé dei predoni di Haftar.
Una cosa è certa: il malessere ai vertici della nostra Marina militare è forte, come conferma a Globalist una fonte bene informata. E il basso profilo tenuto sin qui dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, non viene più interpretato come un atteggiamento saggio e responsabile ma frutto di una indecisione che investe l’intero Governo, a cominciare dal premier Conte e dal ministro degli Esteri Di Maio. “Essere responsabili è una cosa, dimostrarsi imbelli è tutt’altra – dice a Globalist la fonte -. E l’Italia questo sta dimostrando”.